Due sorelle, un’estate
Un’estate da morire! Che contraddizione, vero Meg, che l’estate sia fatta per la morte? Eppure quell’estate che attende te e tua sorella Molly, che tu osservi di sottecchi (ammettilo, con un misto di invidia per come la natura condensi tra fratelli doni felici senza equità, lei la bella, tu l’intellettuale) vi sembra fatta per morire: di noia, di attesa. Pensi soltanto a questo, quando i vostri genitori vi annunciano che una vecchia casa di campagna è l’unico rifugio per permettere al vostro padre professore di terminare la stesura della “Sintesi dialettica dell’ironia”: ironia, percezione degli opposti, paradosso. Chissà se ci hai mai pensato: il titolo di quel saggio condensa in sé il senso della vita. Della vostra vita. Della vostra sorellanza.
Nella casa in campagna
È solo novembre: nella vecchia casa di campagna, ancora così vuota nel cielo grigio e bianco dell’inverno del New England, dovete condividere la stessa stanza e non basta una linea di demarcazione, tracciata col gessetto sul pavimento da Molly, a garantirvi uno spazio di riservatezza per tener nascoste “le parti più intime di sé”. Ci hai pensato, più tardi? Anche in una stanza l’altro resta un mistero per noi, anzi forse è più paradossale (eccola di nuovo, l’ironia) constatarlo nella vicinanza.
Ma la vita è più veloce di ogni attesa, più veloce di ogni rimpianto: il guscio vuoto della casa si riempie presto dei vostri passi e delle vostre voci, del ticchettio fremente della macchina da scrivere, di abitudini e incontri che illudono che la vita riprenda sempre senza interruzioni, nel solco di una ripetitività rassicurante. Molly a scuola ha un ragazzo che la guarda in un modo… e che le telefona sempre (e “come potrebbe non piacere una così?”), la mamma sta cucendo la trapunta dei ricordi, con pezzi dei vostri vestiti d’infanzia, nuovi amici entrano nella vostra vita: il vecchio Will, che ti ricorda, citando Shakespeare, che “siamo della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è della durata di un sonno”; Bill e Maria, in attesa di un bambino, che ti insegnano che “non si può far finta che le cose spiacevoli non capitino”.
È per Margaret che tu piangi…
La vita scorre nell’illusione di una ripetitività che non esiste, vero Meg? Impercettibile, banale, la morte si insinua nella vostra casa, dentro la vostra stanza, con la fine di febbraio: Molly ha il raffreddore, ma è solo un raffreddore che dura un po’ più a lungo. Molly una notte si sveglia e la portano via in ospedale. Ma devono solo trovare le medicine. Molly torna a casa, non sta ancora benissimo, ma si rimetterà.
Il tuo amore non detto, perché tra sorelle, si sa, litigare è d’obbligo, parlava nel tuo sguardo: dietro l’obiettivo della tua macchina fotografica hai cominciato a fotografare la bella Molly, così simile a tua madre: fermavi nella fissità dell’immagine il suo mutare, rubavi la sua bellezza alla malattia, imprimevi sulla pellicola la penombra del suo volto, e in quella penombra lucevano lontananze da cui eri esclusa:
Non è più la Molly allegra, divertente, piena di sorrisi, idee e buffi entusiasmi. È come se fosse diventata parte di un mondo diverso, nel quale io non sono più inclusa, e nemmeno mamma e papà.
Intanto la primavera sboccia, e arriva l’estate. E Molly prepara il corredo per il bambino di Bill e Maria, con una cura dedita e assorta. La vita e la morte, di nuovo, appaiate in un dialogo continuo, paradossale, senza un perché. Perché non è giusto, perché Molly per sé sognava di sposarsi (ne avevate parlato, nella vostra stanza) e tu no, per te non sognavi un futuro di sposa e di madre. Ma la vita è così, è inutile chiedersi perché all’una conceda all’altra neghi: accanto alla tua Molly, mentre la osservavi nel letto di ospedale e le dicevi che il piccolo Happy era nato, tu, Meg, hai sentito che lei, la tua sorella maggiore, da quel momento sarebbe restata per sempre più piccola di te, ma non più bella, non mi sarei mai sentita più bella di lei.
È per Margaret che tu piangi, Meg, ti ha detto Will nel suo parlare quasi profetico, quando sulle sue labbra riaffiorano stralci di poesia: lo hai capito, ora. Due sorelle sono una diade ironica, la compresenza dei contrari, un’unità paradossale e allora come si fa a sopravvivere alla propria morte? Eppure anche “i margini appuntiti della tristezza vengono smussati dai ricordi”: sarà allora, Margaret, che, osservando una tua foto, potrai scoprire “qualcosa di Molly” nel tuo viso, un attimo fugace impresso permanentemente in te.
Un’estate da morire: una storia intensa sottovoce
Un’estate da morire di Lois Lowry, pubblicato per la prima volta nel 1977 ed edito ora in Italia da 21lettere (una casa editrice da tenere d’occhio per la selezione dei suoi titoli), affonda le radici nella biografia dell’autrice e racconta, con una levità raffinata, una stagione e mezza di scoperta della vita e delle sue contraddizioni, attraverso lo sguardo della tredicenne Meg, io narrante della storia.
Lois Lowry, nella bella traduzione di Enrico Santachiara, ci parla sottovoce, con dolcezza e senza patetismi. È un romanzo di un’intensità rara, tenace, che trae dalla sobrietà della scrittura la sua forza narrativa.
Anche l’illustrazione di copertina di Jacopo Starace ci introduce nell’ambigua bellezza di questa storia breve: spighe di grano splendono su un cielo turchese e netto mentre dietro di esse l’ombra si allarga e farfalle fugaci volteggiano tra pagliuzze d’oro, che un vento invisibile strappa via.