Perchè resister non si può al ritmo del jazz.
Ed in effetti sassofoni e contrabbassi danzano e si abbracciano ad un ritmo talmente coinvolgente che nemmeno una famiglia di gattini alto-borghesi della Parigi bene, cresciuta a Beethoven e Schubert, riesce a tener ferme le proprie code, scatenate sul be-bop-a-lula di Scat Cat e compagni.
Gli Aristogatti, 20° Grande Classico d’animazione Disney, classe 1970 – celeberrimo per aver portato sullo schermo non solo la crema di crema alla Edgar, ma anche il gatto più sexy del pianeta (un orgoglio tutto nostrano) e personaggi ricchi di una dignità tale da meritarsi un Oscar (se solo non bisognasse essere tridimensionali per andarlo poi anche a ritirare un Oscar), come Zio Reginaldo – ci tengono a ricordarci che la classe non è acqua (nemmeno brandy, nel caso di Zio Reginaldo) e tantomeno pedigree.
E lo sanno bene i mici randagi che abitano i famosi sottotetti parigini, felini Toulouse Lautrec per mansarda e aria bohémien, pervasi da uno spirito alla Harlem Renassaince, che per un attimo pare quasi più di essere a New Orleans che nella Ville Lumière. Tra una vecchia poltrona in pelle sfondate e lampade art-déco, la gang di gatti jazzisti amici di Romeo, er mejo der Colosseo, si gode la vita con quello di più semplice che quest’ultima ci offre: una finestra aperta da cui filtra il cielo notturno e musica. Tanta musica. Musica jazz.
Certo, dire “semplice” quando si parla di jazz dovrebbe farci alzare un po’ le sopracciglia, quantomeno. Perchè di certo il jazz non è esattamente il genere musicale più facile, easy-listening (e anche easy-playing), più alla-portata-di-tutti. Au contraire!
Il jazz è considerato un genere da intenditori, per musicisti completi di talento, tecnica e orecchio, la cui complessità – spesso – è ciò che ce lo fa ritenere un po’ “noiosetto”. Un po’ quella roba da beatnik in calzamaglia nera che leggono poesie, dimenandosi su improvvisati passi di danza contemporanea, applaudono schioccando le dita e bevono rigorosamente vino rosso con occhiali tondi e viola in punta di naso.
Eppure, forse, non sapete che esiste anche un jazz decisamente più orecchiabile. Un primo passo, un avvicinamento a tutti i Wynton Marsalis a venire: questo primo passo si chiama cool jazz. Sviluppatosi verso la fine degli anni Quaranta nell’area di New York, sotto forti influenze del bebop, questo genere propone un approccio più rilassato e meno virtuosistico al jazz, prediligendo canzoni più brevi, cantate e motivetti orecchiabili, lungi dalle armonie involute del suo progenitore.
E se si parla di cool jazz è inevitabile parlare anche del suo principe (che di regale non ha solo il titolo ad honorem, ma anche la bellezza): l’affascinante Chet Baker. Nato a Yale nel 1929 e morto ad Amsterdam all’età di soli 59 anni, per lo più trascorsi tra una tossicodipendenza e l’altra, è stato uno dei più prolifici musicisti cool jazz di tutti i tempi: è praticamente impossibile ricomporre la sua discografia completa, considerando tutte le incisioni occasionali a cui si è concesso per racimolare i soldi necessari a pagarsi la dipendenza dall’eroina, e anche solo quella parziale non scherza. Wikipedia per credere.
Chet Baker non è forse stato il jazzista più talentuoso di tutti i tempi, come Miles Davis o Charlie “Bird” Parker; forse uno dei più fighi, ma probabilmente non anche uno dei più simpatici, considerata la spocchia dimostrata in alcune leggende metropolitane a lui attribuite; ma, di sicuro, il suo My Funny Valentine è uno degli album d’amore più belli, delicati e romantici e commoventi di sempre. Sfido io qualunque ragazza a non innamorarsi con le languide note e la voce soave di It’s Always You nelle cuffie dell’Ipod.
E per chi non volesse accontentarsi delle parole musicate, Chet Baker ha lasciato anche parole scritte: appunti, pensieri, storie. Più semplicemente, ricordi. Memories. In As Though I Had Wings: The Lost Memoir (in Italia edito da MinimumFax col titolo Come Se Avessi Le Ali. Le Memorie Perdute), autobiografia-collage postuma, sono raccolte le sue collaborazioni con star del calibro di Stan Getz, le droghe raccontate attraverso gli occhi ed il gergo del tossico, i salti di relazione in relazione, di carcere in carcere, di città in citta. Il mondo (mitizzato) e misterioso del James Dean della tromba.
Alcuni non si vogliono arrendere al pensiero della sua morte: una messa in scena – dicono – al seguito della quale si sarebbe trasferito in un paesino italiano sotto mentite spoglie, nel pieno dell’anonimato. Magari con John Lennon, Mariliyn Monroe, e Elvis Presley, dico io. Personalmente, preferisco immaginarmelo insieme a Scat Cat nella sopracitata mansarda parigina. Uno duo di trombettisti fantastici. Impossibile tener ferme le code.