Oggi piove.
Anche ieri pioveva. Forse pioverà pure domani. Ed anche se i marciapiedi non sono ancora avvolti da una coperta di calde foglie rosse e gialle il cielo è già grigio. Di quel grigio intorpidito che solo il pigro autunno può regalarti e che ti abbraccia tendendoti una tazza di the bianco caldo. Meglio ancora se aromatizzato all'arancia.
E non so come siate voi, Kiddies, che magari ad aprire le tapparelle e vedere che l'azzurro e l'estate sopra i tetti non ci sono più, sintonizzate i vostri ITunes su Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight) e cominciate a sgambettare selvaggiamente per portare un sole grande quanto un pallone aerostatico nella vostra cameretta; ma per quanto riguarda me, io sono quel tipo di persona che si attacca alla tenda con aria malinconica, si stringe ancora di più nella sua informe tuta di felpa blu, si immerge in quel cielo d'asfalto – e se la gode, ragazzi miei. Se la gode. Un po' teatrale forse, ma che volete farci: il naufragar, in fondo, c'è dolce in questo mare.
E questo post e questa pioggia sono dedicati proprio a tutti quelli che, tra di voi, amano piangersela un po', come me. A tutti quelli che agli ABBA preferiscono i Death in June quando fuori è ottobre. A tutti quelli che, alla vista di un cielo così triste, pensano subito all'Inghilterra, magari al nordovest, magari a Manchester.
Perchè gli anni Ottanta non sono solo Cindy Lauper, e brillantini, e sfere strobo e gonne di tulle rosa e viola, e scaldamuscoli verde mela.
Gli anni Ottanta nascondono anche una faccia più cupa, taciturna e malinconicamente intima. Questa faccia si chiama darkwave.
La darkwave nasce nell'Inghilterra degli anni Ottanta, in grembo al decennio per definire tutte quelle band di stampo elettronico new wave che si tingono di sfumature più tristi e più nere. Più dark, ça va sans dire.
Voci che più che cantare piangono, chitarre e bassi uniti in un armonioso lamento e i synth nel ruolo di Dio – onnipresenti senza invadere mai – che vanno a creare quella bellezza tanto alta quanto delicata che solo le cose un po' tristi e un po' sole sanno creare.
E se dovessimo stilare un trittico del genere, la nostra croce sarebbe occupata da tre band che sulla darkwave si sono cuciti tutti i loro abiti. Come nelle barzellette, dove c'è un tedesco, un francese e un italiano. Solo che qua sono tutti inglesi. E destinati a spegnersi nel giro del decennio, come fiammelle di candele. Bauhaus, Joy Division e The Cure.
Alcuni bruceranno ancora più in fretta, come Ian Curtis, il cantante dei Joy Division che a soli ventitre anni decide di impiccarsi alla rastrelliera della sua cucina, in una spoglia villetta famigliare alla perfieria di Manchester City. La sua voce grigia come le ciminiere delle fabbriche della città industriale, grigia come il cielo di oggi.
I Bauhaus tirano avanti un po' di più – 5 anni – prima che il cantante Peter Murphy (più pallido e scheletrico del Bela Lugosi di cui canta) ne annunci l'immotivato scioglimento, al ritorno da un acclamatissimo tour in giappone.
A sopravvivere sono solo i Cure, il cui cantante – Robert Smith – continua a salire sugli stessi palchi, con le stesse camicie di pigiama nero, lo stesso rossetto rosso sbavato, e lo stesso nido di capelli neri, un groviglio di corvino zucchero filato, cantando capolavori come Boys Don't Cry o Lullaby.
La darkwave nasce per rendere giustizia al silenzio in un mondo monopolizzato dall'inquinamento acustico, sovraffollato di rumore, di chiasso. Deve esserci spazio anche per le lacrime. Bisogna concedersi un po' di immotivata tristezza, ogni tanto. E' questione di raccoglimento.
Per poi aprire quella finestra e far rinascere il sole tiepido anche in un cielo autunnale, perchè anche dalle cose tristi, possono nascere cose belle. Come i sorrisi. D'atronde dal letame nascono i fiori, cantava un poeta genovese tanti anni fa'. E uscire con un sorriso meno euforico, ma più ricco – forse – , più intimo, magari sulle note di Friday I'm In Love, che c'è spazio per l'amore più tenero anche nel buio. E oggi capita proprio a pennello.