Francesco D’Adamo, Papà sta sulla torre (Giunti)
Papà sta sulla torre sin dal titolo ci chiama, ci chiede di guardare il presente: la torre è l’emblema di tutte le torri su cui sono saliti, salgono e saliranno gli eroi-operai delle cronache contemporanee, nella palude della nostra crisi economica. Sono eroi senza nome, che salgono sulla torre per non perdere, dopo il lavoro, se stessi . Quel “se stessi” è il loro essere padri, mariti, parte di una comunità civile che troppo spesso accetta come ineluttabile il destino di precarietà in cui viviamo.
Papà sta sulla torre non appartiene, però, soltanto al nostro tempo: se non fosse per la presenza di cellulari e pc, o per la schiera muta di nuovi schiavi provenienti dall’altra fetta, disperata, di mondo, arruolati da imprenditori che licenziano di giorno gli uomini con diritti, per poter sfruttare nel buio gli uomini senza diritti, se non fosse per tutti questi segni del nostro presente, Papà sta sulla torre potrebbe figurare benissimo nell’Italia degli anni ’70, tra cassa integrazione e lotte operaie. Una storia forse mai veramente conclusa.
Papà sta sulla torre è, però, soprattutto la storia di un figlio che si mette in viaggio.
In una città che somiglia a tante nostre periferie, l’ultima fabbrica chiude.
Quando il lavoro muore, l’agonia è lenta: comincia con la CIG, cassa integrazione guadagni, che fa “CIGolare gli uomini”, li fa diventare zombie e finisce con la morte civile, LICENZIATO:
Io la CIG allora non sapevo bene cosa fosse, me la immaginavo come una specie di influenza, un microbo, un virus verde e molliccio, maligno e contagioso che passava di casa in casa approfittando del buio.
Nino, il protagonista, racconta il mondo precario dei padri e delle madri osservati dal suo angolo di vita, ancora pieno di sogni e di giochi, ma su cui già pesa la consapevolezza di una realtà difficile:
Io avevo capito cos’era successo, era nell’aria da tanto tempo, avevo sentito diverse volte papà che diceva: qui finisce che chiudiamo anche noi. Però a una cosa così non ti abitui mai e speri sempre che in realtà non succeda, come per le malattie. […]
All’improvviso mi sentii solo e disperato.
Così, mentre papà, Testadipietra, un sindacalista duro e puro, decide di salire sulla torre per non arrendersi alla decisione che tutti presentano come inevitabile, il figlio Nino decide a sua volta di percorrere un altro viaggio, sul fiume nero che, con i suoi miasmi, ammorba la città. Destinazione: la vecchia fabbrica abbandonata Ferro&Metalli, totem oscuro e sinistro, fuori dal tempo, guardiano di un mondo senza futuro.
Lì, raccontano, ci sono cose vecchie che possono essere rivendute, c’è il rame (ma quello è già affare di gente organizzata, a cui è meglio non pestare i piedi). Lì, sostiene Goffy, il geniale ed emarginato amico di Nino, è soprattutto il luogo in cui gli alieni hanno deciso di prendere contatto con lui: porteranno pace, lavoro, libertà?
Per quell’isola del tesoro gli amici si mettono in viaggio, via fiume, dopo aver ridato vita a una barca abbandonata tra la sterpaglia. Sono pellegrini in cerca di speranze, di passaggio per una terra di nessuno.
Ai due amici si unisce la misteriosa Cassandra Vu, pelle di marmo e occhi lucenti nascosti dietro i capelli neri, anche lei con un dolore lontano e sconosciuto. I tre amici, ciascuno con il suo peso sul cuore, compiono un viaggio mistico attraverso il fiume nero, un po’ Acheronte, un po’ Mississippi di Huck Finn, lento e silenzioso.
Eravamo fuori dal mondo, c’eravamo io e Goffy e Cassandra Vu, soli su una barca che avrebbe continuato ad andare avanti per conto suo su quel fiume morto per tutto il tempo che fosse stato necessario e che alla fine ci avrebbe portato là dove dovevamo andare. Bastava aspettare.
Cosa accadrà, ai piedi della fabbrica? Perché i suoi occhi cavi s’accedono, di notte? Cosa vedrà, Cassandra? Il ritorno a casa non porterà “Pace Lavoro & Libertà, troppo bello, troppo facile”, ma una piccola vittoria, quella di Testadipietra sui signori dei licenziamenti, quella sì. Riporterà un papà alla sua famiglia, un figlio al padre, gli uomini al loro lavoro.
La scrittura di Francesco D’Adamo avvince in una dimensione che, quando i tre amici intraprendono il proprio viaggio, sembra sprofondarci in un sottosuolo di simboli, in un’avventura che trasforma tre ragazzi in tre giovani uomini.
E poi cambiammo noi.