Quest’anno, in una prima media, un ragazzino mi ha chiesto se poteva farmi leggere una storia del Dr Seuss; sua madre l’aveva acquistata dopo aver partecipato a un corso di lettura a voce alta e però non era ancora capace di leggerla bene: “così, dopo, quando ho sentito come la leggi te, io lo dico a mia mamma”, ha aggiunto.
La storia è Prosciutto e uova verdi, storia tutta in rima di un Nando, detto Ferdi, che vuole a tutti i costi fare assaggiare al suo amico prosciutto e uova verdi, e non è certamente una passeggiata − non è comunque una cosa che darei da leggere a chi ha da poco iniziato a esercitarsi nella lettura a voce alta.
Il primo gradino da fare, per imparare a leggere a voce alta, è conoscere la propria voce. Però devo fare un distinguo, in limine.
L’esperienza di leggere a voce alta a un gruppo di bambini o adulti è diversa dall’esperienza di leggere a voce alta al proprio figlio.
Ma è in questa differenza che si coglie precisamente di che voce siamo fatti: nel passaggio dall’esserci per qualcuno che conosco, che mi conosce, all’esserci per qualcuno che non conosco e che non mi conosce.
Emotivamente, intendo: esserci e conoscersi, emotivamente.
Quando siamo legati emotivamente a quelli cui stiamo leggendo, la nostra voce è qualcosa che appartiene a noi, e il noi è l’insieme delle persone nella stanza al momento della lettura. Tutto è dove deve stare.
Poniamo invece un corso di lettura a voce alta; qui mi insegnano a guardare lo spartito del testo, a usare tono, timbro e ritmo della voce, a impastare la voce con gli ingredienti testuali, a capire cosa il testo chiede al lettore, passando dalla forma alla perfomance.
E ovviamente mi chiedono di provare a leggere a voce alta.
Questa lettura mi dà la possibilità di “riconoscere” la mia voce in mezzo agli altri, perché gli altri, semplicemente, non mi conoscono.
Paradossalmente, più sono legata a lettore, più leggo male e più leggo bene.
Perché è il legame tra chi legge e chi ascolta che conta, il legame tra madre e figlio, tra nonna e nipote, tra sorella e fratello. Non conta la storia, ma io e te qui con questo tempo solo per noi e una cosa che sappiamo solo noi.
Viceversa, se chi legge e chi ascolta sono perfetti sconosciuti, è la voce e il modo di leggere che legittima lo stare insieme, qui, in questo tempo per noi, con qualcosa che scopriamo insieme di sapere.
Dunque, tornando alla performance, quando sento risuonare in una stanza la mia voce e sono consapevole che allo stesso modo sta risuonando per altre persone che non mi conoscono e che io non conosco, questo è il primo gradino da fare.
Durante un corso di formazione, una professoressa delle medie mi ha confessato, alla fine delle esercitazioni di lettura a voce alta finalizzate a scoprire i tratti acustici dominanti di alcuni testi, che lo scoglio più grande per lei, che pure è abituata a leggere in classe, è stato proprio quello di riappropriarsi, nell’esercizio fonico, del timbro della sua voce che risuonava nella stanza come per la prima volta.
Spesso il dato banale è quello vero, e il dato vero è quello difficile da capire. Sarà anche banale che non devo vergognarmi della voce che ho, ma non è forse vero che spesso me ne vergogno?
Un altro elemento fondamentale della lettura a voce alta, è che non ha niente a che vedere con la professione drammaturgica. Se leggo bene a voce alta, è vero che qualcuno, alla fine della lettura, potrebbe chiedermi se ho fatto teatro, perché le due cose sembrano avere qualcosa in comune, ma credo che in comune abbiano solo il piacere di sentirsi raccontare una storia.
Posso spiegarlo così.
Pochi giorni fa ho fatto una lettura a voce alta nella Biblioteca Baldini, a Santarcangelo di Romagna; la lettura accompagnava la presentazione di un volume di inediti baldiniani curato da Tiziana Mattioli e Ennio Grassi per la Raffaelli Editore; si tratta di reportage straordinari scritti per Panorama, di alcuni testi creativi scritti per riviste come «Imago», e della riedizione di Autotem, primo libro baldiniano uscito nel 1967 per Bompiani e mai più stampato.
Il testo in questione, scritto per «Imago», è lungo, narrato in prima persona da un personaggio bonario e nevrotico; ha dei momenti di idillio intimista con l’amata automobile, momenti di improvvise alzate di barricate contro i ladri, contro quelli che non capiscono come si tiene un’automobile; insomma è un vero pezzo baldiniano e un bel grattacapo per chi volesse leggerlo a voce alta.
Avevo già fatto questa stessa lettura a settembre, per il programma del Cantiere poetico per Santarcangelo, ma a settembre la lettura era stata fatta nel teatro Il lavatoio.
Allora mi ero ritrovata con il pubblico al buio e la luce sull’asta del microfono e sul leggio (che non uso mai, perché mi sembra di consegnare il foglio alla tomba).
Una lettura di questo genere tira il testo e tira la voce verso la performance teatrale, poiché, davanti al buio, bisogna cercare solo in se stessi e nelle ragioni che legano il sé al testo, la grana e il ritmo e la tenuta della voce.
La lettura a voce alta, invece, è per natura, fiabescamente direi, legata all’atto del leggere per qualcuno e questo qualcuno partecipa alla lettura.
Non c’è un’altra via, non c’è buio in sala, non esiste il pezzo imparato a memoria che risuona di per sé, come una verità che chi la vuole la prende, il testo è vero, si realizza, vive, solo se c’è chi legge e se c’è chi ascolta.
Questo è accaduto nella classe prima, dove Prosciutto e uova verdi hanno ricevuto la voce in rima di tutti i ragazzi, che a ogni ritornello sostenevano il motivo portante della storia; questo accade ogni volta che leggiamo a voce alta e incontriamo la faccia di chi ci ascolta, e riusciamo a portare agli altri il testo perché in parte, quello stesso testo, lo sta portando a noi l’altro che ci ascolta.
La lettura baldiniana in biblioteca è stata molto più vera e più bella di quella fatta a teatro, perché ho potuto cucire le parole ai volti e agli sguardi, perché nell’ascolto partecipato si è sentita più vera la voce di questo uomo bizzarro e appassionato e fragile che lava la macchina da solo, a un canale a Pieve Emanuele, vicino Pavia, e la lava bene – prima gran acqua su tutto per sfangarla, a sportelli chiusi, poi shamponatura con la spugna, poi risciacquatura alla grossa, poi seconda shamponatura con la spazzola e pulizia dello sporco resistente, poi seconda risciacquatura abbondante, poi asciugatura con pelle di daino, e tutta l’operazione all’ombra, perché se c’è il sole si asciuga in modo irregolare e restano delle macchie.
Affare di una mezz’ora, come lo shampoo alla testa di una ragazza.
Il secondo gradino per imparare a leggere a voce alta, quando la voce ci ha reso forti e sicuri dell’io che siamo, è di far spazio ogni volta, con cura, all’altro che non siamo.