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L’archeologia pubblica raccontata ai bambini

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La settimana appena trascorsa ha visto condensarsi in pochi giorni diverse scadenze. No, non mi riferisco tanto al mio compleanno che ha sancito il mio ingresso negli “-enta”, quanto semmai alla messa per iscritto sia del contributo sull’archeologia pubblica a Vignale per gli atti del convegno di Verona dello scorso dicembre che di questo post.

Come ogni volta che ti ritrovi a fare più cose contemporaneamente, il rischio che queste si sovrappongano, si mischino e producano nella tua testa livelli di confusione oltre ogni limite gestibile, si fa concreto. Tuttavia,  spesso, è proprio in questo caos che alcuni tasselli, solo apparentemente indipendenti gli uni dagli altri, avvicinandosi e legandosi, producono delle piccole rivelazioni da cui poi emergono spunti di riflessione interessanti.

E così, mentre fissavo il cursore lampeggiare e ragionavo sui paradigmi teorici della Public Archaeology, mi sono chiesta: “elucubrazioni specialistiche a parte, come sarebbe possibile spiegare a un bambino cosa significhi fare archeologia pubblica?”. Si dice che se sai dire qualcosa con poche parole semplici, in modo che sia comprensibile anche a un bimbo, significa che padroneggi quel concetto.

In questo caso più che in altri, però, non si tratta forse solo di un esercizio di comunicazione efficace, quanto semmai di cogliere l’occasione per mettere a fuoco una verità che si potrebbe definire logica, se non proprio scontata, ovvero che l’archeologia è una disciplina “pubblica” per sua stessa natura, aspetto questo che purtroppo quando non è stato volutamente ignorato, è stato spesso, quantomeno, relegato in secondo piano.

Per troppo tempo, infatti, gli scavi hanno rappresentato delle specie di microcosmi isolati da tutto ciò che li circondava, spesso celati agli occhi delle persone, quasi a far credere che lì, dentro a quelle recinzioni, si stessero scoprendo cose che dovevano restare segrete, per pochi. Per non parlare poi dei risultati derivati da quelle ricerche: era già tanto se venivano pubblicati sulle riviste specialistiche o in qualche monografia che solo uno sparuto gruppo di studiosi avrebbe sfogliato.

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Ecco perché essere un archeologo al giorno d’oggi significa, tra le altre cose, fare autocritica partendo dalle conseguenze che questo tipo di approccio “elitario” ha determinato; significa riappropriarsi di quel ruolo di mediatori culturali che dovrebbe essere proprio del nostro mestiere e raccontare alle persone le storie che vengono dalla terra. Solo in questo modo possiamo restituire alle comunità il senso del loro passato e possiamo trarre da questo il senso del nostro futuro professionale.

“E come si fa?”, immagino che mi chiederebbe a questo punto qualsiasi bambino. Molto probabilmente la mia risposta potrebbe lasciarlo insoddisfatto: sarebbe una risposta volutamente vaga perché dovrebbe tener conto di un aspetto fondamentale quando si ha a che fare con “gli uomini e le cose”: la molteplicità. Forse direi a questo bambino che l’archeologia pubblica è un gran bel gioco in grado di far incontrare gli uomini antichi e quelli moderni. Presupposto di ogni incontro è che le due parti siano poi in grado di dialogare; ecco che a questo punto interviene l’archeologo.

Spetta infatti a lui il compito di inventarsi di volta in volta la maniera migliore per tradurre e rendere comprensibili per coloro che stanno ad ascoltare, le storie che sono emerse dal suo lavoro. Non esiste un unico modo per farlo: bisogna adattarsi alle innumerevoli varianti che compongono l’equazione, al tipo di pubblico che ti sta a sentire, al contesto di scavo, alla tipologia di intervento, allo scopo del progetto e così via. Insomma, una varietà vastissima di possibili incastri: il bello del gioco sta proprio nella possibilità di sperimentare fino a trovare quello più adatto al nostro caso!

Si sa che ad un certo punto i bambini, per continuare a seguirti nei tuoi ragionamenti, hanno bisogno di esempi concreti, tanto meglio se provengono dalla tua esperienza dretta. Bene, sono preparata!

Si dà il caso che i miei primi esperimenti di archeologia pubblica sul sito di Vignale abbiano avuto per protagonisti proprio gli alunni della scuola elementare del paese. Era l’autunno del 2007 e di due cose sono sicura: la prima è che non avevo mai sentito parlare di “archeologia pubblica”, la seconda che proprio quel giorno abbiamo intuito che quei muretti rasati, quei pavimenti appena riconoscibili, quella canaletta che intercettava una grande fossa, non potevano da sole raccontare in maniera efficace a quei bambini tutte le facce che quel sito aveva avuto.

Avevamo bisogno di uno stratagemma per dar forma ad un’idea, alle nostre interpretazioni, a quello che fino a quel momento avevamo capito scavando: mettendoci noi al posto delle colonne del portico, ricreando l’arrivo alla stazione di posta di un ospite a cavallo o piegandoci a simulare gli archetti che avrebbero sostenuto il piano di cottura della fornace appena scoperta, insomma, rendendo vivide agli occhi di quei bambini le immagini che la spiegazione tentava di evocare nelle loro menti, abbiamo gettato le basi di un progetto che col tempo e con tanto lavoro ha coinvolto un’intera comunità.

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L’aspetto più bello a ben vedere è forse proprio il fatto che i bambini siano stati gli elementi catalizzatori di questo legame fortissimo che ormai esiste tra noi e la gente del posto. Dopo quella prima classe venuta in visita allo scavo (qualche mese fa è stato piuttosto emozionante riconoscere alcuni di quei volti, oggi con un accenno di barba e un po’ di trucco, tra le facce di coloro che hanno partecipato alla prima fase di crowdfunding per Vignale), ne sono seguite moltissime altre. Grazie ad ognuno di quei ragazzi, alla loro naturale voglia di condivisione, abbiamo potuto coinvolgere praticamente a tappeto tutta la popolazione del paese: abbiamo scoperto che non c’è pubblicità migliore di quella che possono fare i bambini!

E per concludere, mi piace ricordare uno scavo di cui abbiamo già parlato in passato: il sito della “terramara” di Pilastri del quale abbiamo seguito attentamente le vicende perché ha saputo portare a compimento un bellissimo progetto di archeologia pubblica grazie anche al contributo e all’entusiasmo contagioso dei suoi piccoli sostenitori. Proprio qualche giorno fa il ministro Dario Franceschini è stato lì in visita; queste sono le parole che ha usato e che ci piace leggere come un messaggio benaugurante per i molti progetti simili e per il futuro in generale della nostra disciplina, in cui valorizzazione e sostenibilità possano davvero andare a braccetto:

“[…] qui si è sperimentata una forma intelligente di scavo archeologico che non interessa soltanto gli addetti ai lavori ma che coinvolge i cittadini e fa sentire la riscoperta del patrimonio culturale come una scoperta della propria identità. […]La sfida di fondo è quella di far capire a tutto il sistema che investire in tutela del patrimonio non è soltanto rispettare l’articolo 9 della Costituzione, ma anche una straordinaria possibilità di crescita economica in un mondo di persone che vogliono mangiare italiano, parlare italiano e venire almeno una volta a fare un viaggio qui”.

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La foto è tratta dall’articolo del quotidiano on-line estense.com (http://www.estense.com/?p=464085)

Samanta Mariotti

 

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