Illustrazione di Domenico Sicolo tratta dal libro "Il mestiere dell'archeologo" di Giovanna Baldasarre
Ogni giorno, davanti ai nostri occhi, in diversi momenti della giornata, sfilano paesaggi l’uno diverso dall’atro: al mattino, quando andiamo a scuola o a lavoro, e i nostri occhi assonnati guardano fuori dal finestrino del pulmino o dell’auto, la domenica mattina, quando percorriamo in bici le strade di campagna che circondano le città, d’estate, quando partiamo per le vacanze e dall’oblò dell’aereo ammiriamo un paesaggio mozzafiato, assai simile ad una cartina geografica.
Ma cos’è un paesaggio? Come si è trasformato nel tempo e in che modo gli archeologi sono in grado di studiarne questi mutamenti? Ne ho parlato con il professore e archeologo Franco Cambi, che insegna “Archeologia dei paesaggi” all’Università di Siena.
– Domanda d’obbligo: a che età ha deciso che avrebbe fatto l’archeologo da grande e per quale ragione?
A quattordici anni, paradossalmente incoraggiato dai miei genitori e dal vecchio amico, Gino Brambilla, personaggio particolarissimo ed esemplare, per decenni ispettore onorario della Soprintendenza archeologica all’isola d’Elba. Portava me ed altri ragazzini a visitare siti archeologici altrimenti irraggiungibili.
– Lei insegna “Archeologia dei paesaggi” all’Università di Siena. Partiamo dal concetto di paesaggio: che definizione ne darebbe?
Il paesaggio è un prodotto della storia, che opera sui quadri ambientali naturali attraverso le azioni dell'uomo. Un paesaggio è uno spazio di varia estensione per un tempo di varia durata, lo diceva anche Lucio Gambi. Le opere durature dell'uomo, cioè le strutture e le infrastrutture necessarie alla sua vita, al suo agire economico, culturale e spirituale, si sovrappongono al substrato naturale e si inseriscono in un’eredità storica in via di progressivo arricchimento. Come non si può pensare un sito archeologico senza stratificazione, allo stesso modo non si può pensare il paesaggio senza una visione che sia storica, stratigrafica e geografica al tempo stesso: un approccio globale per arrivare ad una visione globale. L’archeologia dei paesaggi è nata quando l’archeologia è stata contaminata, positivamente, da due fattori: il pensiero stratigrafico da un lato, il recupero del senso degli spazi dall’altro.
– Di che cosa si occupa l’archeologia dei paesaggi?
L’archeologia dei paesaggi cerca di ricostruire i paesaggi del passato, rintracciandone i fossili nel paesaggio contemporaneo e interrogando le fonti più diverse: testi, iscrizioni, monete, documenti d’archivio, cartografie storiche, toponimi, fonti iconografiche, immagini satellitari e fotografie aeree, studi di carattere geomorfologico, ricerche antropologico-culturali, scavi archeologici, ricognizioni sistematiche. L’archeologo dei paesaggi deve essere l’elemento equilibratore di molte competenze diverse.
– Quali sono i principali strumenti di indagine adottati dagli archeologi che studiano i paesaggi?
Molto sinteticamente direi: la ricognizione sistematica, la diagnostica archeologica, l’analisi di immagini remote e il rilievo digitale tridimensionale, l’analisi di documentazione storica, le fonti testuali, le analisi geomorfologiche, le indagini etnoarcheologiche, le ricerche bio-archeologiche, gli scavi archeologici stratigrafici su siti o su contesti campione.
– Il compito dell’archeologo non è soltanto quello di riportare alla luce aree archeologiche sconosciute, ma anche quello di valutare le potenzialità archeologiche di un territorio, cioè cercare di capire, attraverso la ricerca, quanti siti ci potrebbero essere in una determinata area geografica. Queste informazioni potrebbero essere molto utili a chi amministra le regioni, le città e i comuni, per programmare al meglio la realizzazione di nuove opere pubbliche.
In base alla sua esperienza, ritiene che questa collaborazione tra archeologi e amministratori dei territori ci sia e sia sufficiente? Di che cosa gli archeologi avrebbero maggiormente bisogno?
Sulla base delle mie esperienze, ovvero la partecipazione al progetto di Valutazione Impatto Ambientale fatto per la Autostrada Tirrenica e al nuovo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, direi che c’è ancora molto da fare. Da questo punto di vista la Regione Puglia ha realizzato con successo un’ottima Carta dei Beni Culturali. La Toscana, Regione all’avanguardia fino agli anni ’80, ha perso un tempo che sta adesso cercando di recuperare con fatica. Gli archeologi si stanno sforzando molto per aumentare lo spessore pubblico del loro lavoro ma bisogna ancora lavorare, soprattutto con i giovani, in questa direzione. Alle amministrazioni chiedo maggiore disponibilità a collaborare alla creazione di reti di informazioni e conoscenze e di spazi di condivisione e di scambio fra amministrazioni stesse, atenei, enti preposti alla tutela e società.
– Crede sia importante raccontare l’archeologia ai bambini e ai ragazzi e spiegare quanto questo mestiere sia fondamentale nella società moderna per conservare e valorizzare la memoria del passato? Ci sono state occasioni in cui l’ha fatto in prima persona? Ce le racconti.
Il tema della comunicazione della scienza archeologica al pubblico e, con questo, del ruolo pubblico e sociale della figura del docente di archeologia è molto dibattuto. È facile destare curiosità nel pubblico: un po’ di fantarcheologia, un pizzico di archeosofia e il gioco è fatto. Dobbiamo, però, pensare, che la società non è disposta a prendere tutto per buono. Ce ne siamo accorti in questi ultimi anni: scolaresche, associazioni culturali, semplici appassionati pongono domande dirette e precise pretendendo spiegazioni anche articolate e intervenendo in maniera mai banale. Questo fa piacere ai docenti e ai giovani impegnati nella ricerca. Abbiamo visto riconosciuto il nostro ruolo pubblico, la nostra efficacia sociale. L’associazione Aithale (dal nome greco dell’isola d’Elba), della quale faccio parte insieme con la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Università di Firenze, il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, i Musei di Portoferraio e di Rio nell'Elba, cerca di svolgere all’Elba attività che si traducano abbastanza rapidamente in comunicazione. Ma prima della comunicazione deve esserci conoscenza verificata e consolidata e prima della conoscenza deve esserci ricerca opportunamente condotta. Bisogna guardarsi dall’improvvisazione e dal sensazionalismo ma bisogna anche dare risposte e conoscenze in tempi rapidi.