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Giochi e giocattoli antichi

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Monte Sannace, Gioia del Colle, 460 avanti Cristo. È un’assolata mattina di fine giugno. Un bimbo di pochi anni siede a terra sull’uscio semiaperto di una capanna. Al suo interno, una donna cuoce una minestra per il pranzo e intanto intona una nenia, quasi volesse con la voce cullare il figlioletto.

Il piccolo insegue con lo sguardo vispo il cammino di una tartaruga che avanza adagio tra fili d’erba e sassi. Quando prova a toccarne il guscio, la testa e le zampe si ritraggono furtive all’interno. A quel punto, con un colpo più deciso, la rovescia a pancia in su e la solletica sul ventre. L’animale si divincola con forza e il bambino, sempre più divertito, la rigira e la lascia avanzare di qualche passo. Poi, ricomincia con le sue innocenti torture. Ma della tartaruga il bambino si stanca ben presto. Sarà il caldo di mezzogiorno, il sonno o forse la fame, all’improvviso scoppia in un pianto crescente. La mamma prova invano a consolarlo e placarne i gemiti, ma il piccolo urla sempre più forte per richiamarne l’attenzione. Allora si affaccia sull’uscio, si china al suo fianco e gli porge uno strano oggetto in argilla a forma di cinghialetto. Il bimbo lo afferra a piene mani e comincia a scuoterlo. E il rumore che ne esce, cadenzato ma lieve, lo rasserena e fa sorridere. Mamma e figlio si guardano negli occhi amorevolmente, poi l’una torna alle sue faccende e l’altro al suo nuovo gioco. Fino al prossimo capriccio.

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Villaggio di capanne peucezie. Illustrazione di Francesca Giannetti tratta dall’app narrante prodotta nell’ambito del progetto di ricerca Living Heritage.

 Foggia, aprile 2015. Sono in una scuola materna per un laboratorio sui giochi e giocattoli antichi. I bambini della maestra Loriana li conosco già e loro riconoscono me. Scambiamo qualche battuta, ripasso i loro nomi che ho dimenticato dalla volta scorsa, mi faccio raccontare le loro piccole storie di viaggi, feste, conquiste. Poi, tiro fuori dalla sacca, sotto lo sguardo attento di decine di occhietti, il materiale che mi sono portata dietro per il laboratorio: argilla, tappi di sughero, spiedini, fotografie e dei modellini di giocattoli che ho realizzato a casa: una bambola, un carretto, due dadi e un quadrupede non meglio identificato, un cavallino rimasto intrappolato nel DAS.

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“Li hai fatti tu? Beeellliiii!!!”, “Ma adesso li facciamo anche noi?”

“Certo! Ma prima voglio raccontarvi la storia di questi giocattoli. Cominciamo!”

In realtà non è mica facile. Questi bambini sono nati e cresciuti in città, molti sono magari figli unici e dunque giocoforza costretti a giochi e svaghi solitari, di animali ne vedono pochi a parte cani, gatti e pesciolini rossi e, cosa ancor più grave, spesso hanno completamente perso la consuetudine del gioco di squadra, in cortile o al parco o per strada. Non sanno cosa voglia dire la libertà di una corsa all’aria aperta, il piacere di ritrovarsi con i compagni di sempre e stabilire le regole di un gioco sempre uguale ma ogni volta diverso, le ginocchia sbucciate e i nascondigli segreti: una buca nel terreno, una cavità nella corteccia di un albero, un capanno abbandonato. E anche i loro giocattoli, tutti tremendamente sofisticati e prodotti in serie, sono spesso inutili gingilli per soddisfare un desiderio passeggero più che strumenti per esplorare il mondo e stimolare la fantasia.

Mi sento inerme. Spesso affido ai libri, quelli che mi porto dietro e leggo ad alta voce e di cui mostro le figure, il compito di suscitare emozioni e riflessioni, scatenare reazioni e creare associazioni. Questa volta ho solo le mie parole e qualche foto di giocattoli antichi recuperate qua e là: bambole, dadi, pedine, carretti, pietre.

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Giochi antichi. Foto scattata da Francesco Ripanti a Palazzo Altemps, Roma.

 

Giocattoli di fortuna provo a spiegare, spesso prodotti da artigiani con materiali pregiati come l’avorio, altre volte modellati n casa con quel poco che c’era: un po’ di argilla, qualche straccio o pezzo di legno da scortecciare. O sassi raccolti in giro a cui restituire una nuova vita.

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Giochi antichi. Foto scattata da Francesco Ripanti a Palazzo Altemps, Roma.

 

Giocattoli preziosi che spesso costituivano i soli beni che questi bambini possedevano, tanto che quando morivano – eh sì, perché spesso si moriva in tenera età per un malanno da nulla – si seppellivano assieme a loro, perché potessero continuare a giocarci per sempre.

Sento su di me, mentre racconto, il peso dei loro sguardi attenti e perplessi. So che dietro ciascuno di questi visi meravigliati e assorti c’è un cervello che pensa, ingranaggi che girano, parole e immagini che nessuno conoscerà mai per davvero. La curiosità è ora innescata. Il momento è quello giusto.

Mostro la foto di un cinghialetto di terracotta, un tintinnabulum, ritrovato nella tomba di un bambino a Monte Sannace, laddove sorgeva uno dei maggiori abitati peucezi della Puglia preromana.

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Tintinnabulum a forma di cinghialetto di epoca peucezia da Monte Sannace. Museo Archeologico di Gioia del Colle.

“Che cos’è secondo voi?”

“Un salvadanaio!” mi risponde un piccoletto davanti a me. Effettivamente potrebbe essere…

“No, non è un salvadanaio. Innanzitutto ha la forma di un animale. Di che animale si tratta?”

“Un maiale!”, “Un cinghiale!”

“Bravo! Hai detto bene: un cinghiale. Ora però, per capire a cosa serviva, pensate a cosa usano le vostre mamme per far smettere di piangere i vostri fratellini…”

“Il sonaglino!”

“Esatto! E infatti questo qua non è altro se non un sonaglino usato tantissimo tempo fa. Dentro l’animaletto di argilla c’era un sassolino. Scuotendolo il bambino sentiva il rumore che produceva e si calmava. Gli archeologi hanno trovato tantissimi animaletti-sonaglini nelle tombe scavate accanto alle case”.

La foto del biberon messapico, un po’ guttus e un po’ tintinnabulum, ritrovato a Manduria in una tomba a camera di 2400 anni fa, li lascia ancor di più a bocca aperta. Il maialino in questione ha occhi e sopracciglia dipinti di bianco, orecchie appuntite e un muso sporgente da cui il poppante succhiava il latte, mentre il sonaglio nella pancia dell’animale, suonando ad ogni sorso, ne conciliava il sonno.

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Biberon rinvenuto in una tomba a camera a Manduria (Taranto) di V-IV secolo a.C. 

“Anche il vostro biberon un giorno, tra tantissimi anni, potrebbe diventare un reperto. E magari qui ci sarà un’altra archeologa a mostrare ai bambini del futuro la foto del vostro biberon di plastica colorata…”.

Silenzio e tanti pensieri che si muovono liberi nello spazio colorato della stanza.

È ora di sporcarsi le mani. Ci sediamo attorno ai tavolini, ciascuno con un pezzo di argilla, ciascuno con un’idea a cui dar forma, un gioco da inventare, un piccolo sogno da plasmare.

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All’inizio sono un po’ impacciati, si rigirano la palla d’argilla tra le mani senza sapere bene cosa farne. Si guardano le mani quasi si chiedessero se davvero sono in grado di creare qualcosa, se può un giocattolo nascere dal nulla e non, come invece sono abituati, da una scatola infiocchettata da scartare. Ma laddove ci sono tanti bambini non può che esserci un mondo ancor tutto da inventare. Pian piano le palline di argilla si animano e si trasformano in carretti, bambole, vasetti, dinosauri, serpenti, dadi, maschere… la fantasia è ormai liberata, quasi ci si dimentica che il tempo è passato ed è ora di merenda, le mani non vogliono smettere di creare e questa piccola aula assomiglia ad un negozio di giocattoli fatti di niente ma che valgono tanto.

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E allora mi accorgo, ancora una volta, che la differenza sta tutta qua, racchiusa tra le pareti di questa e di tutte le aule del mondo. Ed è nel futuro di questi bambini e nel modo in cui decideranno di giocare la loro vita.

I bambini di oggi sono gli adulti di domani, aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi, aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi, aiutiamoli a diventare più sensibili, un bambino creativo è un bambino più felice (Bruno Munari).

Giovanna Baldasarre

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