È un storia allo stesso tempo grande e triste quella di Manoel Francisco dos Santos. A quattro anni già corre dietro a un pallone, con i piedi scalzi, ovunque, nella sua Pau Grande. Fa anche altro, nuota nel fiume, gioca, dà la caccia ai passeri, piccoli come lui, così la sorella gli dà il nome che lo seguirà ovunque, Garrincha (passerotto in brasiliano appunto).
Se nascendo ci vengono date in dono delle carte da giocare, quelle che ha in mano Garrincha non sembrano delle più fortunate: sin da bambino fuma sigari di paglia e beve cachimbo, alcolico a base di cachaça (acquavite ottenuta dalla distillazione del succo di canna da zucchero) che i genitori gli danno per fargli passare i dolori alle ossa, perché Manoel, a causa della poliomielite, ha la spina dorsale storta e il bacino sbilanciato per cui ha una gamba più corta, una gamba storta in dentro e una storta in fuori.
Il dolore però non lo ferma, abbandona la scuola dopo la terza media, a 14 anni comincia a lavorare nella fabbrica tessile di Pau Grande, non è un impiegato modello, ma si distingue nella squadra amatoriale della fabbrica, lo Sport Club Pau Grande. Gioca così bene che, una volta licenziato per la svogliatezza, viene riassunto per farlo tornare in squadra (pur essendo poi messo a occuparsi dei lavori che nessun altro voleva). A sedici anni muore la madre, un’altra cosa andata storta.
La sua carta fortunata è quella del calcio che continua ad accompagnare le sue giornate e a farlo notare; gli viene chiesto di giocare a Petropolis nella squadra del Cruzeiro Do Sul e poi, sempre a Petropolis, passa al Serrano dove è pagato 30 cruzeiros a partita. Garrincha comincia una vita da pendolare, non lasciando la sua squadra di Pau Grande per debito di amicizia e affetto verso il suo capo che gli aveva conservato il posto di lavoro. Andare avanti e indietro è così faticoso che alla fine Manoel rinuncia ad una delle due squadre e – questo ci dice già molto di lui – rinuncia al contratto con il Serrano.
Ai soldi Garrincha sembra poco interessato, del calcio gli interessa il gioco più che l’ingaggio da giocatore professionista, ma il suo talento lo porta sempre più lontano: finisce a giocare per il Botafogo e poi anche nella nazionale brasiliana con la quale vince per la prima volta un mondiale nel 1958. Arrivano, quindi, anche i soldi, ma sembra quasi non saper che farsene, certo ora può offrire da bere a tutti gli avventori di un bar, pagare il doppio la corsa di un taxi o pagare il doppio una bottiglia di liquore… poco importa, i soldi non li tiene neanche in banca fino a quando un amico non si offre di occuparsene (“[…] per prima cosa cercò in tutta la mia casa le banconote che tenevo sotto il materasso, nei cassetti, nella zuccheriera, nella scatola dei biscotti[…]”), ma il conto avrò vita breve a causa dei continui prelievi.
Oltre al calcio, alcol e donne sono le due sue più grandi passioni.
Sposatosi poco prima dei diciannove anni con Nair, una collega di lavoro da cui avrà otto figlie femmine, seguiranno diverse storie d’amore nella sua vita come Iraci a Rio de Janeiro, una cameriera di 17 anni conosciuta in Svezia, Elsa Soares, la cantante per cui lascerà la moglie e con cui condividerà il dolore della perdita di un figlio di nove anni in seguito a un incidente stradale: 14 saranno, in tutto, i figli di Garrincha.
L’alcol segnerà la sua rovina (morirà a soli 50 anni per le conseguenze di una cirrosi epatica e di un edema polmonare), vani saranno nel corso degli anni i tentativi di smettere di bere, con le ricadute spesso legate ai momenti più tragici della sua vita, come la morte della suocera (in un incidente automobilistico che lo vedeva alla guida della vettura) o il dolore al ginocchio che sempre più gli impedirà di giocare, soprattutto dopo un’operazione andata male.
Garrincha, alegria do povo, a sentire i medici era un invalido e non avrebbe potuto giocare, eppure il calcio è stata la sua vita, una vita che spesso è andata storta, così come le sue gambe, fuori da un campo di calcio che l’ha visto invece dribblare i suoi avversari e lasciarli senza parole, partita dopo partita.
Garrincha. L’angelo dalle gambe storte (Uovonero) è il primo graphic novel di Antonio Ferrara, premio Andersen 2012 con Ero cattivo (autore) e nel 2015 con Io sono così (illustratore).
È O anjo das pernas tortas (L’angelo dalle gambe storte), una poesia dedicata a Garrincha e scritta da Vinicius De Moraes, ad aprire il racconto di Ferrara. Nella storia (in bicromia blu-bianco), a volte pochi elementi bastano per riempire una pagina (come due gambe che vanno via o due gambe nel pieno del gioco), a volte bastano solo le parole, il vuoto riesce a comunicare come il pieno; nelle pagine si sente l’entusiasmo del pubblico sugli spalti così come il silenzio davanti a un’ennesima bottiglia. Nelle ultime pagine, Mané è sempre più solo quando, steso sul letto di un ospedale, rivede la sua vita, i suoi dribbling, i suoi figli e, anche nella disperazione, gli scappa un sorriso: “[…] qualcosa di buono perfino io avevo combinato nella vita”.