Ricordando un famoso titolo della fine degli anni ottanta, qualche mese fa, ho dovuto, novello regista, dirigere una delle scene più difficili del film della mia vita: “Marta ti presento Agnese”.
Se al centro di quella pellicola era il quesito sulla possibilità di amicizia tra un uomo e una donna, la sceneggiatura a mia disposizione si dipanava tutta lungo la trama dell’incontro di Marta con la sorella arrivata a turbare equilibri consolidati e a compromettere rapporti affettivi esclusivi.
Una presentazione inevitabile e non rinviabile. In ospedale, brevi e rapidi incontri di cortesia tra le due. Solo un provino. Tornato a casa con la neonata, ho affrontato ciò che di più temuto era nelle mie previsioni per l’incertezza con cui avrebbe reagito la primogenita. Il primo vero incontro, non in territorio neutro ma nel suo incontrastato regno (almeno fino a quel momento!).
Alla nascita della sorella, Marta aveva quattro anni e aveva già vissuto esperienze terribili: il “distacco emotivo” prima dal seno materno e poi dal ciuccio, la “residenza forzata” nella sua cameretta nelle lunghe ore notturne e l’”abbandono” a scuola. Per lei, era arrivato il momento della scoperta di non essere più al centro dell’attenzione del mondo intero. Ciò che accadde fu inatteso.
Continuando le citazioni cinefile, Marta avrebbe meritato un premio oscar se questo non fosse già stato dato a Gary Cooper per un’interpretazione simile nel film “Mezzogiorno di fuoco”. Un ipotetico spettatore avrebbe potuto apprezzare le inquadrature dall’alto per stigmatizzare l’attesa e i continui primi piani sul protagonista che mostra continuamente il suo turbamento e le sue paure. Gli addobbi all’ingresso, l’acquisto di un regalo di benvenuto e ogni precauzione presa perché Marta potesse dimostrarsi degno ospite fu resa, immediatamente, inutile quando l’invasore entrò in casa.
La scena finale – più che il duello con il cattivo/neonato (le cui battute, come nel film, evidentemente non potevano che essere poche) – ricorda quella dello sceriffo che getta la stella per simboleggiare la delusione per l’ipocrisia di quanti (parenti e nonni) l’avevano, a suo sentire, abbandonata ed erano pronti a festeggiare per l’intrusa. Non tanto una posizione contro il nemico che veniva da fuori ma la condanna per chi aveva finto, nei suoi primi anni di vita, di considerarla unica e insostituibile.
Marta si limitò a poche frasi di circostanza e convenevoli di rito come se tutto dovesse, di li a poco, ritornare come prima. La serenità con cui reagì mi spiazzò. Avevo dato per certo la necessità di fronteggiare una scenata di gelosia e, invece, mi trovai di fronte alla nascita di un sodalizio che le avrebbe viste, per tutta la loro vita, insieme a fronteggiare i miei maldestri tentativi di fare il papà.