Maria Gripe, illustrazioni di Harald Gripe, I figli del mastro vetraio, Iperborea
Certe storie hanno un sapore senza tempo che le rende veramente immortali.
Non sono legate al presente ma non risultano “datate”, si svolgono in un tempo indefinito che non svanisce mai. Anche quando l’incipit non è il classico “C’era una volta”, ci ritroviamo così in un’atmosfera di fiaba che non finisce di stupire, affascinare e tenerci legati a lei.
Oltre ad appartenere a un tempo indefinito, I figli del mastro vetraio è un libro che viene da lontano, dal Nord Europa, così come gli altri volumi della collana I Miniborei della casa editrice Iperborea, il cui debutto vi abbiamo presentato qualche tempo fa.
I figli del mastro vetraio è stato pubblicato per la prima volta nel 1964 (in Italia edito nel 1988, ma da tempo fuori catalogo), scritto da Maria Gripe, scrittrice svedese Premio Andersen nel 1974, e illustrato da Harald Gripe, artista e illustratore svedese, noto soprattutto per aver illustrato i libri della moglie Maria e per la sua collezione di teatrini di carta, oggi esposti al Gripes Model Theatre Museum di Nyköping.
Vivevano in un antico paesino, che ora non esiste più…
La storia è ambientata a Penuria, un antico paese che ora non troverete su nessuna mappa. Qui abitano Alberto, il mastro vetraio del titolo, con la moglie Sofia e i due figli Pietro e Chiara. Si tratta di una famiglia povera a cui, però, non manca l’essenziale. Alberto possiede la piccola casa in cui abitano e una bottega dove soffiare il vetro. Il mastro vetraio è veramente un maestro nella sua arte, purtroppo però non risulta altrettanto abile come venditore, porta sempre le sue merci a due grandi fiere, una autunnale e una primaverile, ma non riesce a guadagnare più del necessario per sopravvivere.
I piccoli figli del vetraio amano passare il tempo nella bottega del padre; quando capita che qualche oggetto di vetro cada e si rompa in tanti pezzi, Chiara, di poco più di due anni, non ci fa molto caso, corre in casa a fare altro, il più piccolo Pietro, invece, dapprima ride, poi, vedendo i frammenti di vetro sul pavimento, piange terrorizzato.
“Nessuno immaginava che, semplicemente, intuiva che ciò che è più bello deve per forza essere più fragile, e questo fa paura e dispiacere quando si è piccoli e non si conosce la natura del vetro. È ben triste che la cosa più bella del mondo si rompa così facilmente”.
Parole che suonano come un primo presagio della trama che il destino sta intessendo per questa umile famiglia.
Alberto, inizialmente inconsapevole del futuro, si dedica soprattutto al lavoro. La moglie si sente spesso sola, perché passa le sue giornate ad aspettarlo, così, in un momento di sfogo, finisce per dirgli che i bambini non le sono di compagnia, ma le sono solo d’impiccio. Anche queste parole suonano al lettore come un oscuro presagio e, subito pentita, Sofia porterà dentro di sé un grande senso di colpa per quelle parole affrettate.
La Città dei Desideri
Proprio mentre tutta la famiglia è a una fiera, Pietro e Chiara vengono rapiti dal Sovrano della Città dei Desideri. I due bambini sono un dono del Sovrano per la moglie. La Sovrana, avendo già tutto, ha perso ogni capacità di desiderare cose nuove. Il marito fa di tutto per farle esprimere un nuovo desiderio, aspettando così di esaudirlo e di essere ringraziato, ma non sentirà alcun “grazie” per l’arrivo dei due bambini, accettati e trattati con gentilezza, ma visti come una “trovata” del Sovrano.
La Città dei Desideri è bella ma vuota, solo il Palazzo del Sovrano è abitato e i bambini, considerati al pari di un oggetto, presto vengono trascurati e lasciati alle cure dei domestici. Pietro e Chiara non ricordano nulla della loro vita passata dal momento in cui sono arrivati nella Città dei Desideri, si comportano in maniera educata ma sono soli e, pur non avendone piena coscienza, infelici. I sovrani sono sempre più incuranti dei bambini, viene assunta una terribile tata, Nana, per prendersi cura di loro e i due si troveranno prigionieri di questa figura così come l’uccellino in gabbia che Nana ha portato con sé.
L’eterna lotta tra il bene e il male
Qualcuno però cambierà il corso della storia dei due bambini, una figura misteriosa e magica. Svolazza Beltempo è una vecchietta dallo sguardo mite e potente, in grado di prevedere il futuro. Con lei c’è sempre l’inseparabile corvo, Savio, che ha un occhio solo. Il corvo ha perso un occhio nel pozzo della saggezza e ora, con l’occhio che gli è rimasto, vede solo il bene della vita; per non perdere la saggezza che il suo nome richiama, però, sono necessari entrambi gli occhi, quello che vede il bene e quello che vede il male.
Un romanzo che ci immerge in un mondo fantastico, dove, attraverso l’avventura vissuta dai piccoli Pietro e Chiara, diverse riflessioni restano nel cuore del lettore, sulla saggezza, sul bene e il male, sui desideri e sulla fragilità delle cose belle, così simile a quella del vetro.