Facebook mi ha appena informata, con grande discrezione, che abbiamo festeggiato i nostri primi quattro anni insieme. La rivelazione mi ha colpito all’improvviso: non me ne ero proprio resa conto. Sono volati, come si usa dire.
Quattro anni lunghi e intensi, in cui mai sono stata sfiorata dal pensiero di cancellarmi, mai nessuno ha tentato di rubarmi la password – o, se ci hanno provato, non ci sono riusciti – e mai nessuno è riuscito a convincermi che Facebook sia solo una perdita di tempo. Quattro anni in cui non è passato letteralmente giorno – ecco, questa è un filino inquietante – in cui io non abbia cliccato almeno una volta l’icona blu con la grande effe bianca, dal computer o dal cellulare, dalla cima di una montagna fino al bagno di casa, sotto il sole di mezzogiorno come tra i bagordi della mezzanotte. Ci sono mille duecento settantatre – lo scrivo per esteso, così fa più effetto – foto pubblicate nei miei trentatre (“dica trentatre!”) album fotografici: alcune ritraggono amici che non vedo più da tempo immemore, consegnati all’immortalità grazie a un tag; altre momenti perfetti della mia vita che non torneranno mai, emozioni dimenticate, noia, rabbia, rancore, ricordi. Vita, per riassumere tutto. Perché Facebook, a suo modo, c’era.
Quattro anni, nella vita di una persona e ancora di più durante la giovinezza, hanno il peso specifico di quattro ere geologiche. In questi quattro anni il mio mondo si è capovolto, ha ballato la tarantella, è caduto a terra sbucciandosi le ginocchia per poi rialzarsi più forte di prima. Mi ha vista piangere, vincere, disperarmi, sbattere la testa contro il muro e mordicchiarmi le unghie, pensare che non c’era via d’uscita alcuna e sorprendermi quando mi sono resa conto che era proprio lì, davanti a me.
In tutto questo Facebook era lì, discreto e accogliente, segnalava con uno status sibillino o una foto apparentemente priva di senso i moti del mio animo bizzarro, le giornate storte, le liti, le domande esistenziali e quelle più comuni, le simpatie e le antipatie, tutto insomma. Ho passato tutte le varie fasi: quando andavano di moda le famigerate top five e mentalmente dividevo lo scibile umano a gruppi di cinque, le svedesi adottate, i memi, le frasi di Fabio Volo citate a sproposito, la foto di Kate Moss con gli skinny grigi e il blazer nero abbinata a ogni possibile argomento, i troll sovversivi, gli scherzi di cattivo gusto, i test, e scrivi la tua vita attraverso i titoli delle canzoni e quelli dei libri. Potrei continuare all’infinito. Ho usato Facebook per farmi i fatti degli altri, per far credere che la mia vita fosse più luccicante di quello che era in realtà, per mostrare me stessa come sono e come avrei voluto essere. Ho stalkerato ex- fidanzati, mi sono stupita – in positivo e in negativo – nel vedere cosa erano diventati i miei compagni di elementari medie liceo doposcuola e corso di nuoto, mi ha aiutato a mantenere i contatti con gli amici lontani e vicini, mi ha fatto fare qualche risata di cuore e – soprattutto – mi ha fatto perdere un sacco di tempo che avrei potuto tranquillamente utilizzare per salvare il mondo. Ma non c’è problema, su questo posso sempre mettermi in pari.
Nessun altro social network mi ha mai presa come Facebook: Twitter rimane sempre un poco snob e i suo centoquaranta caratteri sono una catena alla caviglia della mia prolissità verbale; Google + si è autodistrutto da solo, Pinterest è noioso e Myspace ormai solo un lontano ricordo. L’unico sfarfallio nel mio cuore di geek lo ha portato Instagram – che, guarda caso, è stato da poco acquisito da Facebook. Nella selva dei nuovi social patinati, Facebook somiglia al compagno di scuola un po’ sfigato, quello che passa i compiti o divide la merenda nella speranza che poi tu finisca per invitarlo a casa tua il pomeriggio; quello che si abbandona così, senza cattiveria, per passare ad altro, ma che rimane sempre lì, fedele e paziente, coi compiti fatti e la merenda pronta.
Dicono che ora Facebook, come Marx e Dio (e quasi quasi Woody Allen) sia morto – ma è davvero così? In effetti, da qualche tempo si è trasformato in una ridda di app assurde, moniti sulla vita e foto di Robert Pattinson abbinate a frasi di Confucio. Nonostante questo, ancora non riesco ad andarmene, non voglio andarmene. Mi sembra di sentire la stessa sensazione che ho provato nell’ultimo pomeriggio dell’ultimo anno di liceo, quando sono tornata nella classe ormai deserta con la scusa di aver dimenticato qualcosa: le aule vuote, i corridoi silenziosi, la semi oscurità che avvolgeva tutto. La fine di un’era, qualcosa che non sarebbe mai più tornato, svanito per sempre nel buco nero dei ricordi. Ecco, Facebook è un po' come un ultimo anno di liceo che tutti facciamo fatica a lasciare, perché ci spaventa un po’ non sapere che cosa ci sarà dopo – e anche perché, tutto sommato, ci siamo divertiti. Va fatto, certo, la vita va avanti e lo sappiamo. Però, nel frattempo, rimaniamo ancora un poco qui.