Gabriele Clima, Black Boys, Feltrinelli Up
Black Boys, ultimo romanzo di Gabriele Clima, è una storia che parla di vendetta e rimorso.
Un ragazzo di sedici anni perde il padre in un incidente d’auto. Quando si risveglia dal coma e prova ad alzarsi, l’infermeria che lo assiste lo incoraggia, gli dice che è un combattente e nell’animo di Alex queste parole incontrano un ostacolo denso e cupo che è perdita, qualcosa che mischia insieme sofferenza e rabbia.
Combattente solo per aver riaperto gli occhi ed essersi rimesso in piedi? No, c’è ben altro che dovrebbe fare per poter essere definito tale.
Alex intende trovare il colpevole, l’uomo di colore che guidava il furgone e che ha fatto precipitare l’auto dei suoi genitori nel fiume. L’uomo che ha tolto suo padre dal mondo, che ha ferito sua madre, e che ha ficcato lui nell’acqua putrida del dolore e della incapacità di capire e di dare un nome alle cose.
La storia è tagliata con tocchi precisi e vividi, la lingua di Clima è una lingua diretta che restituisce la nudità delle azioni, una nudità che sconfina ben presto nel degrado di una umanità priva di riflessione, quella dei Black Boys, appunto, un gruppo neo fascista impegnato a “ripulire il quartiere” da immigrati, zingari e mendicanti. Alex ci casca dentro e con sé trascina il pensiero del padre e la presenza silenziosa della madre.
L’esercizio quotidiano della cura
La relazione tra madre e figlio è matrice della scrittura: insegue la voce di Alex, fa da testimone alla brutalità delle cose e alla mancanza di senso della morte – non solo quella del padre di lui. Il sentimento che lega la madre al figlio è fatto di silenzio, di osservazione, di fiducia filtrata e lasciata riposare sotto pochi raggi di luce. Non penso ci potesse essere la storia del dolore della morte e dell’assurdo che si porta dietro, senza questa narrazione parallela della forza della vita, vita che è la relazione tra madre e figlio.
In mezzo alla cecità del ragazzo che piomba dentro la cecità più vasta e cupa dei Black Boys e del loro capo Ferenc, rimane vivo lo sguardo di una madre che tenta la sua domanda al figlio, la domanda inutile, perché il figlio dirà che sì, va tutto bene, che no, non deve preoccuparsi; una madre che aspetta un altro giorno per fargliene un’altra di domanda, per fargliela lo stesso, di nuovo; una madre che aspetta, che non si sottrae al dolore del figlio e al precipizio che gli ha aperto sotto i piedi.
Black Boys è senz’altro una storia che racconta il dolore muto della perdita, il senso della caduta, dell’odio senza ragioni, ma è anche la storia di una madre che prova ogni giorno la fatica di parlare con il proprio figlio, di incontrarlo in una comunicazione vera, di aspettarlo alla fine di un giorno in cui sembra che tutto vada per il meglio per accorgersi, il giorno dopo, che niente è come dovrebbe essere e che bisogna ricominciare daccapo, facendo la domanda stupida, aspettando la risposta stupida, e rimanendo in attesa, sempre – in ascolto, sempre, nell’esercizio quotidiano della cura.