Fabbri pubblica una nuova edizione de “La bella addormentata nel bosco”, rieditando gli storici disegni di Ugo Fontana. Bellissimi, onirici, ricchi di particolari: perfetti per rappresentare una storia senza tempo.
Non ho problemi ad ammetterlo: questa è sempre stata una delle mie fiabe preferite. Quel sonno lungo cent’anni, possibile da interrompere solo tramite qualcuno che forse non sarebbe arrivato mai, mi stringe ancora lo stomaco. Crescendo mi sono documentata e i profondi significati simbolici nascosti dentro questa fiaba – come in tutte le fiabe, veri e propri “racconti di formazione” – mi sono ormai noti. Ma, anche al di là di qualsiasi analisi psicologica e antropologica, “La bella addormentata nel bosco” è una storia magica. C’è dentro tutto: l’invidia della fata, la maledizione nella culla, la fata buona che non può sciogliere il sortilegio ma solo mitigarlo (da leggersi come: io posso aiutarti, ma fino a un certo punto: l’artefice del tuo destino resti tu) la disobbedienza a un ordine costituito (da vedersi non come monito a non trasgredire il divieto, bensì come esortazione a farlo per raggiungere un livello di coscienza superiore), la “punizione” (forse un periodo di crisi e disorientamento necessario per essere ciò che veramente sei?), il lunghissimo sonno che colpisce non solo la principessa, ma tutta la corte (“colpevole” di non essere stata in grado di aiutare la principessa a esprimere se stessa?) e infine il bacio del principe, che scioglie l’incantesimo e apre a un futuro di felicità. Su questo finale sento di voler spendere due righe in più. Si parla molto, oggi, di come le fiabe abbiano distorto l’immaginario delle donne, esortandole a non fare nulla vivendo nell’attesa di qualcuno che arriverà per salvarti, il famigerato principe azzurro che raddrizzerà tutto ciò che c’è di storto nella tua vita. Io, però, non lo vedo così. Il principe non è l’angelo salvatore senza il quale nulla sarebbe stato possibile: è la scintilla che incendia un fuoco che già esiste in potenza sotto la superficie e aspetta solo una spinta in più (che può essere data sì da un amore, ma anche da un’amicizia, da un ideale, da una situazione e via dicendo) che ti porterà sulla strada che davvero desideri intraprendere. La principessa è senza nome non perché non conta nulla, ma perché tutte si possono identificare in lei, è un archetipo universale che mette in scena, recitando, una situazione in cui tutti ci troveremo prima o poi. E il sonno lungo cento anni non è un maleficio, ma un simbolo del fatto che ci vuole tempo – e un grande lavoro di riflessione su noi stesse – per diventare le donne che veramente vorremmo essere. Insomma, tutto tranne che la solita storiella della principessa abbandonata nel bosco e del principe che va in suo soccorso, no?