Non ho mai chiesto ai bambini e ai ragazzi di scrivere qualcosa a casa, per il semplice fatto che l’avrebbero preso, questo qualcosa, come una consegna e così la parte più importante del mio lavoro – dimostrare che esiste una lingua (detta, letta, scritta) per me prima che esista per l’insegnante – sarebbe svanito così, giusto l’attimo di dire ‘…e per casa fate…’ e bum, tutto giocato, e infine perso.
Ma poi ho lavorato sulla scrittura giorno per giorno, contravvenendo a questa regoletta che mi ero data, ed è stato un po’ un andare contro mano sulla strada maestra che voglio raccontarvi.
Lo faccio con due considerazioni.
La prima: è in atto un progressivo allontanamento dal gesto fisico della scrittura con carta e penna e inoltre, soprattutto in America, ma anche in Germania, si sta ritenendo che la scrittura in corsivo debba essere sostituita con quella a stampatello, perché di fatto oramai leggiamo su computer e scriviamo su computer e lo facciamo in stampato. Insomma il corsivo sarebbe fuori dalla nostra vita e sarebbe qualcosa di superato e che verrà progressivamente sostituito, in futuro, dallo stampato, per cui non c’è ragione di non cambiarlo adesso, il nostro modo di scrivere.
D’altra parte il binomio scuola tecnologia va in questa stessa direzione. Ci sono iniziative che prevedono per esempio l’utilizzo gratuito di un tablet a bambino per un mese, con la possibilità di acquistare il tablet a un prezzo agevolato alla scadenza dei trenta giorni.
Un tablet a bambino, in quarta classe di scuola primaria: non riusciamo ancora a far sentire a casa i bambini nella nostra lingua e regaliamo loro un nuovo linguaggio in cui certo saranno abili ma: a fare cosa? Sul tablet non si cresce a nove anni. Ci sono bisogni primari di sviluppo fisico, emotivo e cognitivo che non passeranno mai sullo schermo piatto di un tablet, quando certamente il canale comunicativo del digitale potrebbe costituire uno strumento prezioso di stimolo e di appoggio alla didattica, come potenziamento, come esercizio, come gioco, come scoperta.
Tuttavia l’idea che sta alla base del fornire un tablet a bambino si regge più grossolanamente, e anche più profondamente, sul fatto che andiamo verso il futuro. Che useremo supporti diversi, che li stiamo già usando e saremo bravi e abili nell’usarli, tanto più se li introduciamo a scuola. Però faccio un passo indietro, sempre lo stesso: qual è l’obiettivo educativo su un bambino di scuola primaria? L’obiettivo è la sua crescita: la crescita non è possibile senza apprendimento: l’apprendimento non si realizza se il bambino non passa attraverso le proprie esperienze, il proprio vissuto, il commercio nascosto e in bella vista tra ciò che sa di sapere e ciò che non sa di sapere.
Il tablet in tutto questo può essere e deve essere uno strumento, non un fine.
A leggere la Buona Scuola (che è confezionata con la stessa grafica pubblicitaria della Chateau d’Ax, solo che dentro non si vendono divani, a meno che ‘divani’ non sia sinonimo di ‘inganni’ e ‘falsi miti’) non sembra, e dunque: se non capiamo che il bambino del futuro, questo bambino che immaginiamo abile e efficiente e pronto dentro le nuove tecnologie, se non capiamo che ha bisogno di alzarsi e di muoversi o che ha bisogno di mezz’ora in più per finire il lavoro – nelle mani abbiamo o non abbiamo, insieme al tablet, obiettivi educativi e di insegnamento certi e raggiungibili?
La seconda: considerare quanto possa contare la memoria procedurale legata all’atto fisico dello scrivere nell’acquisire padronanza della lingua.
Insegnare la grammatica e insieme restituire alla lingua il suo ruolo di anima della persona: sono così perché penso e immagino in questo modo qui e in nessun altro e dentro e attraverso la mia lingua, all’interno della lingua di tutti. Se i bambini scrivono per se stessi, se i ragazzi continuano a farlo, la lingua diventa casa nel momento in cui la abita quotidianamente la mia mano. Scrivo qual è (saprò se sia elisione o troncamento se la competenza linguistica fa parte del mio lavoro, altrimenti sarò comunque in grado, quella stessa competenza, di non tradirla), scrivo al di là o aldilà a seconda del senso, scrivo come respiro, come cammino, come vado in bicicletta, come faccio a maglia, se mi piace fare i ferri – come nuoto o vado sui pattini. È una procedura, il mio corpo la conosce, il mio istinto la coglie, la mia mente la segue se (solo se) ho fatto questa strada per me, con le mie ragioni (e torno a pensare a quanti scrittori entrano a scuola per lavorare sull’aspetto vitale della lingua, e torno a considerare quanto il tema sia uno strumento del tutto inerte a fronte di questa vitalità).
Dunque ho abbandonato la consuetudine di non far scrivere a casa e ho invitato i bambini e i ragazzi a scrivere ogni giorno, mettendo al primo posto proprio questa esigenza, che scrivessero ogni giorno, che si riappropriassero di questo gesto fisico del prendere un foglio, una penna o una matita, e di tracciare una riga, che fosse puntata su di loro, questa riga, come diceva Kafka del suo diario, che ogni giorno un rigo fosse puntato su di lui.
La scrittura quando è mestiere vive anche come gesto morale. Di pulizia. Di resa dei conti talvolta, di verità sempre.
E la nostra lingua, anche quando non ha a che fare in senso stretto con il nostro mestiere, mantiene questo senso profondo di resa dei conti, di pulizia, di verità nei confronti del mondo e di noi stessi e rimane l’unica via percorribile da tutti, in ogni momento e in ogni contingenza, per crescere e per riconoscersi.
Ringrazio i ragazzi di prima e di terza classe degli Istituti Manzoni, Olivieri e Leopardi di Pesaro.
(l’immagine di copertina è tratta dalla campagna promozionale Chateau D’ax)