Domani, 27 gennaio, si celebra la Giornata della Memoria. Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa liberavano il campo di concentramento di Auschwitz. Dal 2006 in questa data si commemorano le vittime dell’Olocausto, dopo la celebrazione, il 24 gennaio del 2005, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, del sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti.
Alla memoria molto possono contribuire le letture di documenti, libri storici, ma anche di narrazioni che, pur affidandosi all’invenzione, raccontano storie inserite all’interno di una più grande Storia.
Tra questi, è arrivato in libreria Il bambino in cima alla montagna di John Boyne (Rizzoli).
Siamo a Parigi, nel 1936. Lì Pierrot, sette anni, vive da solo con la madre francese. Il padre, tedesco, era soldato durante la Grande Guerra; non era morto in battaglia ma, come diceva sempre al figlio la madre Émile, la guerra lo aveva ucciso comunque. L’impossibilità di dimenticare ciò che aveva vissuto, la rabbia, il rifugio nell’alcol e la violenza tra le mura domestiche lo portano dapprima alla solitudine e poi alla morte.
Anche il compagno di classe e migliore amico di Pierrot, Anshel Bronstein, vive – nello stesso palazzo parigino – da solo con la madre. Anshel è sordo, i due comunicano però facilmente grazie al linguaggio dei segni e hanno anche creato un simbolo per identificarsi reciprocamente: Anshel, che ritiene Pierrot persona gentile e leale, gli ha assegnato il segno del cane, Pierrot invece ha adottato per Anshel, il più sveglio della classe, il segno della volpe. Oltre a giocare volentieri a pallone, condividono il piacere della lettura, non solo degli stessi libri, ma anche dei racconti scritti da Anshel che, da grande, vuole diventare scrittore ed ha in Pierrot, oltre che un sincero critico, anche una fonte di avventure: Pierrot racconta ed Anshel scrive.
L’ho scritta io questa?, chiedeva Pierrot, quando riceveva le pagine e le leggeva da cima a fondo.
No, l’ho scritta io, rispondeva Anshel, scuotendo la testa. Ma è la tua storia.
E la storia di Pierrot lo porta lontano da Parigi quando, in seguito alla morte della madre, finisce dapprima in un orfanotrofio e poi, dopo un lungo viaggio, dalla sorella del padre, zia Beatrix, governante nella casa delle vacanze di un ricco signore. All’inizio, come Pierrot, non capiamo dove siamo finiti, chi sia questo signore al cui solo nome tutta la servitù si attiva con timore; Pierrot viene istruito su come comportarsi, la sua presenza non deve infastidire chi, generosamente, ha accettato di ospitarlo. Piano piano scopriamo dove siamo: a Berghof, la casa vacanze di Adolf Hitler.
Pierrot da subito si trova diviso in due, la parte di sé che viene dalla Francia può conservarsi ma senza esporsi, anche il suo nome non va bene, è troppo francese, meglio Pieter, per non parlare dell’amico Anshel: la loro corrispondenza deve terminare al più presto, Anshel è ebreo e questa amicizia non potrebbe che portargli dei guai…
Pierrot/Pieter cresce, in fondo alla montagna la Storia si muove, ne giunge qualche eco lontana anche a lui, che è pur sempre solo un bambino e poi un ragazzo. Lui, senza un padre, è felice di ritrovarsi sotto l’ala protettrice di Hitler, ne segue i consigli e gli ordini, dimentica chi era Pierrot, la sua vita a Parigi e il suo amico Anshel, è sempre più solo Pieter. Con indosso la divisa della Gioventù hitleriana si sente forte e sicuro di sé, e anche il lettore stenta a riconoscerlo.
John Boyne, dopo Il bambino con il pigiama a righe, ritorna a raccontarci gli anni della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto, questa volta siamo lontani da un campo di concentramento, ma non esistono case vacanze in guerra: Berghof è luogo di visite, di eventi importanti e di riunioni: chi è lì non può dire di essere estraneo a ciò che avveniva altrove.
Un romanzo di sformazione (no, non è un refuso). Vediamo Pieter crescere e vorremmo scuoterlo, dirgli qualcosa (come fa Emma, la cuoca della villa), a volte anche prenderlo a schiaffi (o peggio). La Storia è piena di sfumature e di storie da ascoltare, il Male e il Bene non si presentano con un biglietto da visita. Ma una redenzione, se redenzione ci può essere, è anche quella di raccontare ciò che è successo senza dire “io non lo sapevo”.