C’è stato un periodo della mia vita, il periodo in cui ero un’adolescente, in cui ho odiato con tutte le mie forze “il paese”. Era il posto da cui venivano i miei genitori e dove vivevano ancora i miei nonni, ma me ne importava poco allora, perché non era che un minuscolo villaggio aggrappato alla collina, circondato da montagne e isolato dal mondo, in cui le differenze tra locali e stranieri, durante i mesi estivi, diventavano abissali.
Da bambina invece, lo adoravo.
Non vedevo l’ora che, a fine luglio, papà desse l’annuncio: “lunedì partiamo per il paese”.
Al paese vigevano altre regole, tanto per cominciare. Potevo uscire quando volevo e andare a giocare fuori, potevo stare all’aperto e allontanarmi, tanto ci si conosceva tutti e chiunque sarebbe stato in grado, in due minuti, di dire ai miei genitori dove mi trovavo.
Al paese abitavamo in una casa bella grande piena di cose antiche da scoprire, c’era una soffitta dove una volta si faceva il pane, piena di polvere e ricordi.
Al paese, soprattutto, c’erano i nonni che mi aspettavano, con un miliardo di storie da raccontare, storie di guerre e di privazioni, di quando “i tempi erano diversi, non come ora che avete tutto”, storie di streghe e leggende antiche, storie sempre uguali ma che, come vecchi amici ritrovati, amavo riascoltare.
Poi di colpo, un’estate, mi sono sentita troppo “grande” per il paese.
Mi pesava trascorrere l’estate in un posto dove il massimo del divertimento era starsene seduti su una panchina a raccontarsi storie del terrore.
Non concepivo neanche lontanamente l’idea che un giorno l’avrei apprezzato di nuovo.
Ma la terra è la terra e i luoghi dell’infanzia vivono per sempre.
Questo senso di appartenenza l’ho provato per la prima volta quest’estate, complici ferie troppo brevi, che mi hanno costretta ad organizzare una breve settimana di vacanza su due piedi. Il paese, in effetti, è perfetto per rilassarsi e mangiare bene con fidanzato e amici.
E una sera, mentre guardavo in silenzio il solito paesaggio dal balcone, come ho sempre fatto da che ho memoria, ho sentito una specie di tuffo al cuore. Simile a quando ci si ricorda all’improvviso di una cosa molto importante.
Erano immagini che per un bel po’ se n’erano state silenziose nella mia testa, cancellate dalla spocchiosa sicurezza di essere “troppo grande ormai”.
La vallata piena di luci, di notte. Il silenzio e il verso delle cicale.
Le lucciole! La prima volta che ne ho vista una ero davanti casa con mia nonna!
Mia nonna, la tipica nonna grassottella, con i capelli candidi annodati dietro la nuca e la risata contagiosa.
Mio nonno, di ritorno dall’orto con i cesti pieni di verdure e la camminata goffa e spedita, col suo aplomb canzonatorio perfino quando raccontava di quando aveva rischiato la vita, in trincea.
E poi, la lunga salita per arrivare a casa dell’altro nonno, quello che aggiustava tutto, raccontava storie di guerra e disegnava aquile sul retro di vecchi calendari.
Le risate della gente e la musica che dalla piazza arrivava fino al mio letto, quando in paese c’era la festa. Estati ed estati della mia vita, piene di avventure, immerse nel sogno. Ho trascorso l'intera vacanza a sentirmi una bambina. Il paese era proprio così: un posto a misura di bambino.
Ci sono storie in ogni luogo. Storie meravigliose in posti insignificanti. Storie eccezionali in posti meravigliosi. Ci sono storie in ogni angolo di mondo e mi piacerebbe ascoltarle tutte.
Ma le piccole storie, intrappolate nei luoghi minuscoli dell’infanzia, in paesini aggrappati alle colline e isolati dal mondo, bisogna ascoltarle per prime, proteggerle, coltivarle come un giardino segreto, perché sono le storie di ognuno di noi.
Ogni volta che sarete in un posto, per quanto insignificante vi possa sembrare, fissate bene le immagini, ascoltate i rumori, assaporate i profumi, non trascurate nulla: una notte d’estate, tra molti molti anni, quando meno ve l’aspetterete, quelle immagini verranno a cercarvi, per restituirvi intatto un pezzo della vostra vita.