L’autore georgiano Boris Pasternak (1880-1960), è stato anche poeta, solo che, probabilmente, le sue composizioni in versi sono state offuscate dal successo immenso di quel capolavoro de Il Dottor Zivago che gli fece guadagnare persino il premio Nobel per la letteratura nel 1958. Eppure, fu soprattutto un poeta e anche un poeta d’amore. Amore che trovava nelle piccole cose, nei piccoli gesti, nelle metafore con la natura. Anch’io ho conosciuto l’amore (Passigli 2015) è la raccolta di Pasternak che in questi giorni mi tiene compagnia sotto l’ombrellone. Un russo sulla spiaggia più a Sud di Sicilia, spero non soffra troppo il caldo. Io, invece, godo della freschezza delle sue parole, del loro essere ricercate e allo stesso tempo semplici.
Nella prefazione ho trovato un piccolo stralcio di un suo discorso tenuto a Parigi il 25 Giugno del 1935 durante il Congresso antifascista per la difesa della cultura, sentite cosa disse:
Non vi parlerò di malattia, bensì di poesia: esiste il cielo, la pioggia, la betulla. La poesia rimarrà sempre uguale a se stessa, più alta d’ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra.
Tante volte, in questa rubrica, vi ho parlato di come la poesia sia per me estremamente legata al quotidiano, dunque non posso che chiudere gli occhi e immaginare di essere presente a quel congresso per alzarmi in piedi e battere le mani più forte che posso. E voi ragazzi chinatevi, raccogliete poesia e se non la trovate scavate un po’, come quando a mare si scava una buca per trovare l’acqua del mare. Dovunque vi troviate, se cercherete poesia, essa vi troverà.
Buona estate e buone vacanze!
Bella mia, tutta la grazia,
tutta l’essenza tua mi conquista,
tutta smania di farsi musica
e tutta invoca la sua rima.
Però nelle rime muore il destino
e entra, come verità, nel nostro piccolo
la dissonanza del macrocosmo.
E la rima non è un’eco tra i versi
bensì un numeretto del guardaroba,
un buono per un posto di riguardo
nel caos tombale di radici e fosse.
E nelle rime respira quell’amore
che qui si sopporta a fatica,
tra un’aggrottata di sopraccigli
e una smorfia che arriccia il naso.
La rima non è un’eco tra versi
ma ingresso e permesso d’entrare,
per dare – come il cappotto a teatro –
il carico ingrato del dolore,
il panico della gloria e del peccato
in cambio del gettone di una strofa.
Bella mia, tutta l’essenza,
tutta la grazia tua, oh bellezza,
opprime il petto e spinge ad andare,
spinge a cantare e – mi stupisco ancora.
Eri tu la preghiera di Policleto.
Tue le leggi promulgate.
Tue le leggi nel remoto dei tempi.
Tu – che da sempre mi sei familiare.
1931