In questi giorni sto rielaborando alcune cose per i laboratori dedicati agli studenti urbinati di scienze della formazione e altre per il lavoro con i bambini e i ragazzi che inizierò dalle prossime settimane (bambini di terza elementare e ragazzi di prima media).
Lo faccio attraverso la scrittura.
Reimpostando mappe, elenchi, riordinando appunti da cui escono le idee guida che vorrei seguire; in genere parto dai libri che leggerò in classe, qualcuno ce l’ho in mente già, qualcun altro salta fuori lì, mentre scrivo.
Qualunque percorso viene dalla domanda: a cosa lavoreranno i bambini, i ragazzi?
La domanda che dà inizio ai percorsi per gli adulti è la stessa, ma la risposta in questo caso è duplice.
Mentre lavoro su me stesso, come educatore, vado già verso il bambino. Lavoro su di me, per lavorare con il bambino.
In questa duplice risposta c’è l’assunzione di responsabilità implicita nell’atto educativo.
Mia figlia pochi giorni fa mi ha detto che nella scuola che frequenta (liceo scientifico, terzo anno) a nessun professore frega niente di lei; che quel che conta sono i voti: ‘voti buoni uguale brava persona; voti brutti uguale persona di merda’ (scusate il francese se siete religiosi).*
Ora vorrei riprendere tutti i fili che ho tenuto fin qui perché, credo, servano tutti per provare a parlare di educazione non dico in modo eccelso e perfetto, ma almeno sensato.
La scrittura è, per il mio lavoro, fondamentale. Se rinunciassi ad essa, la qualità di ciò che faccio sarebbe di gran lunga peggiore o di nessun valore. Il perimetro della scrittura è una finestra nella quale vedo riflessa me stessa e dove sono, mentre guardo ciò verso cui tendo, dove sto andando – che sia un cortile, una strada di campagna o le cascate del Niagara. Senza la pratica della scrittura potrei mettere in atto una buona esecuzione, ma non potrei più accedere alla creazione. E la creazione non è esattamente incantum patronum. L’atto creativo è faticoso, lungo, con molte cose da cancellare, nel mezzo, ma il ruolo prezioso della scrittura, sia nella sfera chiusa del privato sia per tutto ciò che si apre alla professione, è oramai un dato acquisito, così forse ora dovrei chiedermi: che cosa c’è dentro la scrittura?
Di fianco ai progetti, sotto gli obiettivi che mi prometto di raggiungere, vicino alle idee e alle ipotesi – dentro la scrittura, ci sono io. Il chi sono mentre guardo le cose che ho fatto o immagino, le cose che vorrei fare e come e con quali scopi.
Sta sparendo il corpo, in educazione.
La scrittura lo è, corpo.
Un maestro, un professore che non scrive è lontano dalla corporeità della scrittura, dalla fatica del gesto creativo, dal processo di costruzione identitaria che inizia dal momento in cui un bambino traccia la prima ‘a’ sul foglio, al momento in cui un maturando consegna il saggio che dà l’addio alla scrittura scolastica e il benvenuto alla scrittura che conterà di lì in avanti, quella per la vita.
Questo non è un pensiero che abbia da sempre, ma negli anni si è consolidato trovando conferme nella capacità di attraversare astrazioni e prassi, e nella contiguità di due contingenze: la divinazione del digitale a scuola e la tendenza educativa verso la certificazione dei disturbi di apprendimento (sostitutiva di una didattica diversificata).
Abbiamo diviso i saperi, creato una schematizzazione e archiviazione di competenze, ideato sistemi di insegnamento e allestito sistemi di verifica e poi di valutazione, ma non stiamo riuscendo a creare un ordine superiore in cui tutto possa essere tenuto insieme nell’unicità e per l’unicità della persona.
Dunque, se dentro la scrittura come corpo ci sono io, adesso mi chiedo: chi sono io? Un essere umano, per prima cosa, per ultima cosa, e un essere umano può esaurirsi all’evidenza delle sue idee e delle sue conoscenze?
Un essere umano è tutto ciò che può dimostrare di sapere?
A mia figlia piace imparare cose nuove e quando succede l’acquisizione della competenza genera l’entusiasmo, la spinta in avanti. Ma questo entusiasmo e questa spinta vengono sottoposti al reagente di una desertificazione che non so come altro definire se non: umana.
Mia figlia, a scuola, è propriamente tutto ciò che può dimostrare di sapere, e il
il professore che metta in pratica una didattica restituiva lo è allo stesso modo.
Se manca il corpo, manca l’uomo e con esso l’impegno, la responsabilità di esserci.
Scrive Azar Nafisi:
Per conquistare la libertà bisogna avere una cosa preziosa e ineffabile, difficilissima da catturare, che non può essere insegnata: bisogna avere immaginazione.
Azar approfondisce di lì a poche pagine la questione, con le parole di David Foster Wallace:
La libertà che conta davvero implica attenzione, consapevolezza, disciplina, capacità di occuparsi sul serio degli altri e di sacrificarsi per loro ogni giorno, ripetutamente, con una miriade di piccoli gesti irrisori e poco appariscenti. Questa è le vera libertà. Questo è apprendere, e imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, l’imposizione predefinita, la corsa al successo, il continuo tormento di aver posseduto e perso qualcosa di infinito.
Imparare a pensare che per la scuola diventa: insegnare a pensare. I ragazzi devono «vivere momenti di rispecchiamento culturale», riconoscendosi «in un racconto, un mito, una musica, una pittura o un nodo concettuale – filosofico, scientifico o matematico – che li possa portare a confrontarsi con l’infinito e i misteri del cosmo» (Franco Lorenzoni), e perché questo confronto sia possibile, il confronto con l’infinito e i misteri del cosmo, è necessaria la presenza dell’adulto che parli al bambino, al ragazzo, per il tramite e con il fine della sua umanità (parola che gli educatori veri conoscono così bene e che ho vista diverse volte scritta qui).
E anche quando mi si dirà che esagero, che uno può benissimo non essere imparentato con la scrittura e con la lettura ed essere un bravo maestro, un bravo professore, che uno può non avere l’esigenza di fare chiarezza nel proprio mondo interiore attraverso la lingua dentro la quale il mondo trova la sua fondazione, io continuerò a credere, come ora credo, che l’umanità abiti in educazione nel gesto della mano che scrive, che mette ordine ai pensieri conoscendone il loro peso, che immagina strade mai fatte e che cerca nei libri, leggendo e rileggendo, ciò che manca per andare avanti, per fare ancora un altro passo.
* Stephen King, IT