Dopo quasi due mesi dal mio ultimo post, mi trovo nuovamente a scrivere, le dita sono un po’ arrugginite è vero, ma la testa è piena piena di idee e pensieri, forse anche troppo. Ma questo è assolutamente normale quando ti trovi alla quarta settimana di scavo: ormai senti la fine della campagna fin troppo vicina e il panico di non riuscire a concludere tutto il lavoro ti assale inevitabilmente. È la stessa identica sensazione che mi travolgeva l’ultimo quarto d’ora del compito in classe di matematica, non so se vi capita o vi è mai capitato di provare una simile ansia.
La testa in questo momento si riempie letteralmente di elenchi di cose da fare o terminare prima che chilometrici teli di plastica bianchi e neri mettano a dormire lo scavo per un intero anno. Nelle otto ore di lavoro al giorno (8 è un tenero numero convenzionale che quasi quotidianamente viene sostituito da numeri a due cifre…) occorre finire di scavare alcune zone per capire e comprendere quella parte di sito, documentare bene e dettagliatamente il lavoro perché unica memoria delle azioni svolte durante lo scavo, organizzare le attività degli altri perché chi è alle prime esperienze deve essere giustamente accompagnato, lavorare al consolidamento di un mosaico del IV secolo d.C. obbedendo alle necessarie tempiste tecniche dell’intera operazione e ricordarsi di respirare ogni tanto. Il problema è che intanto il tempo passa e la chiusura dello scavo si va presentando alla porta senza tanti complimenti.
È un classico, ciclico, straordinariamente ordinario momento della vita da scavo, me lo aspetto insomma ogni anno, come il Natale.
Ma su uno scavo in cui si è scelto di tenere una costante linea diretta con la comunità il lavoro sul cantiere non si esaurisce, per così dire, alla pala e al piccone, ma si concentra anche sul mantenere questa relazione viva e funzionante ogni giorno. Questo significa avere un certo numero di persone sullo scavo regolarmente da gestire e giustamente seguire. E una bella fetta di queste “persone” è rappresentata dalle classi delle scuole elementari della zona. Ogni mattina vocine scalpitanti e eccitate risuonano e si accordano col ritmo metallico delle lame dei picconi e delle trowel.
Quello che fino a pochi anni fa sembrava essere un evento, quindi saltuario e straordinario, ora è parte del normale scandirsi della giornata lavorativa. La scelta di aprire i cancelli non deve tuttavia influire né penalizzare le canoniche operazioni di scavo, e viceversa, quindi a Vignale (il sito nel quale sto lavorando in questo momento) vi è un continuo gioco di equilibrio tra il tempo dello scavo e il tempo della didattica. Ecco, è sempre una questione di tempo. È senza dubbio una grande soddisfazione vedere una risposta tanto calorosa da parte della comunità, sempre presente e partecipe, ma gestire tanti bimbi, a volte anche più classi contemporaneamente, richiede una costante e quasi militaresca organizzazione da parte degli archeologi.
Il lavoro con una classe inizia il giorno precedente alle attività: uno scavo archeologico, tra l’altro in corso d’opera, non è un luogo dove naturalmente possono scorrazzare i bambini, l’area deve essere prontamente preparata. Via i sassi e le pietre, via gli attrezzi pericolosi (e attraenti), via qualsiasi tipo di distrazione come teli o picchetti. Trovate le zone all’interno della recinzione sgombre da materiali e sicure per i bambini, si individuano i punti dove svolgere le attività con gruppi piccoli, d’altra parte è impensabile far lavorare un’intera classe in uno spazio ristretto. Le condizioni di potenziale pericolo nello scavo di Vignale sono pressoché nulle, ma un cordino bianco sovrasta tutte le sezioni. La cosa nasce per motivi di sicurezza certo, ma ha anche lo scopo di concentrare l’attenzione dei piccoli visitatori verso i resti archeologici, perché il cordino bianco evidenzia lo scavo come un pennarello sottolinea le pagine di un libro.
Quando il cantiere è pronto inizia la fase più celebrale e complicata: cosa far fare ai ragazzi e come spiegare loro il sito. Dal momento che tutte le classi elementari vengono a trovarci senza limitazioni dettate dal programma scolastico, dobbiamo pensare ad approcci, linguaggi e attività diversi a seconda dell’età e dell’esperienza dei piccoli visitatori. Questo non sarebbe un grande problema se ogni mattina si presentasse un’unica classe, ma normalmente ciò non avviene, perché purtroppo scaviamo un numero limitato di giorni l’anno e quindi siamo costretti a gestire contemporaneamente alunni di età diverse.
Di nuovo, una questione di tempo.
Occorre perciò un piano preciso e ben studiato, manco fosse il programma d’attacco del più geniale dei generali, un copione che ogni attore deve saper recitare alla perfezione.
Molti sono i fattori, infatti, che devono essere calcolati, oltre al cosa fare e al dove farlo, ogni giorno si presenta il problema del chi dovrà farlo. Stare a lungo a contatto con i bimbi richiede attitudine e una certa predisposizione e non tutti hanno, o si sentono di avere, queste caratteristiche, d’altra parte nasciamo archeologi e non educatori (almeno non immediatamente). Quello di Vignale è uno scavo universitario, quindi la stragrande maggioranza dei partecipanti è costituita da studenti; questi testano a 360 gradi le attività proposte e promosse dal programma di lavoro e molti si mettono in gioco provando anche a gestire e coordinare i mini laboratori con i bambini. Certo, anche se si mettono alla prova vedo sempre nei loro occhi quel velo di terrore misto a bonario odio (spero) nei miei confronti, quando propongo loro di buttarsi e provare la didattica, ma so bene quanto sia complicato rapportarsi per la prima volta con interlocutori tanto esigenti come i bambini delle elementari.
Una volta messo a punto il piano tuttavia, nonostante la ristrettezza dei tempi e le scadenze incombenti, siamo pronti ad andare in scena e ogni volta è puro spettacolo, non quello che offriamo bensì quello a cui assistiamo: orde di piccoli curiosi che inondano con entusiasmo e incanto uno scavo archeologico nel quale coesistono e convivono il tempo dello scavo e il tempo della didattica.
Nina Marotta