Illustrazione di Domenico Sicolo tratta dal libro di Giovanna Baldasarre "Il mestiere dell'archeologo"
Gli archeologi non stanno mai fermi. Quando non scavano, studiano, scrivono articoli scientifici e libri, partecipano a convegni, tengono lezioni all’Università o trascorrono ore rinchiusi nei laboratori a schedare reperti. Ci sono quelli poi che, in attesa che un altro scavo (adeguatamente retribuito) arrivi, si arrangiano come possono, inanellando un lavoretto dopo l’altro, nella speranza che prima o poi l’occasione giusta si presenti e la loro vita cambi (in meglio). Ci sono gli archeologi invece che ad aspettare proprio non ce la fanno, soprattutto d’estate quando fa troppo caldo e la testa fuma con così tanti pensieri. E allora prendono la maschera, la tuta da sub e la bombola d’ossigeno e si tuffano nel mare, giù fino in profondità, laddove, tra pesci, alghe e rocce, c’è un mondo sommerso tutto da scoprire. Sì perché gli archeologi scavano anche sott’acqua. Non ci credete? E allora oggi ho intervistato per voi un archeologo subacqueo in carne e ossa, Giacomo Disantarosa, che è anche un mio grande amico e di anfore ne sa una più del diavolo.
– Quando e perché hai deciso di dedicarti all’archeologia subacquea?
Mi sono appassionato alla ricerca archeologica subacquea nel 1995 proprio durante la mia fase di formazione presso l’Università degli Studi di Bari, quando studiavo per imparare il mestiere dell’archeologo. Specializzandomi nello studio delle anfore – antichi contenitori da trasporto creati per contenere vino, olio o salse di pesce – mi è capitato di identificarne alcuni frammenti in siti pugliesi di età romana. Le anfore risultavano importate dall’Africa, da qualche isola della Grecia, dalle coste della Palestina o dall’attuale Turchia. Giungevano in quei siti sfruttando le “vie dell’acqua” attraverso la stiva di una barca. Ecco tutto questo “cammino” mi affascinava e il mare diventava il mezzo attraverso cui era stato possibile compiere questo viaggio. Lo studio delle tracce sommerse mi avrebbe aiutato a ricostruire con maggiore chiarezza questo scambio.
– Come si svolge il cantiere di scavo sott’acqua e quali sono le principali difficoltà?
Quando si parla di archeologia subacquea si deve necessariamente parlare di un triplice cantiere di scavo. Il primo è quello impiantato direttamente sul sito sott’acqua, in modo da poter procedere con lo scavo e con la documentazione degli strati e dei reperti. Questi infatti vengono esposti, asportando i depositi di sabbia e i detriti che si sono accumulati sul fondale marino e in seguito fotografati, misurati e disegnati per registrare la posizione degli oggetti all’interno dell’imbarcazione e solo in seguito recuperati.
Gli archeologi per poter operare sott’acqua devono indossare una maschera, la muta, le pinne e l’attrezzatura necessaria per permettere di respirare rimanendo collegati alle bombole caricate ad aria compressa. Mentre l’archeologo opera sott’acqua, sulla superficie del mare è presente solitamente una “barca-appoggio” (il secondo cantiere) affidata a colleghi, che costituisce un punto di riferimento per compiere le varie operazioni, oltre a contenere e trasportare le attrezzature necessarie allo scavo e alla documentazione e operare in sicurezza.
Il terzo cantiere, infine, è quello a terra, realizzato presso qualche locale della costa dove vengono trattati i reperti archeologici recuperati con le prime operazioni di restauro e di classificazione.
– Cosa pensa un archeologo mentre sul fondo del mare, tra pesci e altre creature marine, scava nel più totale silenzio?
L’archeologo subacqueo comunica con i colleghi utilizzando gesti oppure lavagnette e fogli resistenti all’acqua su cui scrivere frasi brevi e comunicative o seguendo gli schemi di disegni esemplificativi. I pesci ti fanno spesso compagnia e ti osservano mentre tu sei al lavoro. Alcuni di loro però sono concentrati nella zona di scarico dove possono trovare cibo appena smosso dall’azione di risucchio della sabbia. Quest’ultima operazione viene compiuta con la sorbona, lo strumento caratteristico per lo scavo subacqueo. Si tratta di un tubo collegato con una motopompa caricata sulla barca in superficie che consente di aspirare i sedimenti evidenziando gli strati e i materiali archeologici.
– Raccontaci lo scavo subacqueo più interessante ed entusiasmante a cui hai preso parte.
Le prime esperienze condotte nei mari francesi presso le Isole di Hyères sono state quelle mi hanno consentito di fare un vero e proprio percorso formativo e comprendere che le indagini archeologiche sommerse potevano essere applicate sia su relitti antichi di età romana – come quello naufragato presso l’isola di Baguad che giaceva tra i 18 e 20 m di profondità con un carico di anfore adibite al trasporto del noto vino gallico e datate tra il I e il III sec. d.C. – sia su quelli di età moderna.
Alle storie ricostruite grazie alla documentazione di questi relitti si aggiungono quelle relative alle strutture dell’antico porto di Olbia, un’antica colonia fondata nel IV sec. a.C. Questa esperienza più che entusiasmante fu la più difficile anche se svolta solo tra 1,5 e 2 m di profondità, poiché fare il rilievo dei blocchi che costituivano le antiche strutture portuali in acque costiere risultò non facile in quanto si subiva costantemente il movimento delle onde e delle correnti marine e per disegnare bisognava calcolare bene il momento giusto per poter tracciare il segno sul foglio o per eseguire la successiva misurazione.
– Preferisci scavare sott’acqua o sulla terra? Perché?
Per un archeologo non importa la tipologia del sito che si sta indagando o il suo periodo storico. La consapevolezza durante l’indagine deve essere quella di contribuire con le proprie ricerche a ricostruire un pezzo di storia degli uomini, delle comunità che hanno vissuto in quel luogo attraverso l’uso delle fonti materiali, cioè degli oggetti, del costruito o delle tracce che queste frequentazioni hanno lasciato, per consentire di cogliere con maggiore consapevolezza la realtà sociale e ambientale che lo circonda.
Naturalmente da archeologo subacqueo sono consapevole che gli ambienti sommersi costituiscono “un universo a parte”, che da tempi lontani hanno affascinato l’uomo proprio per la non facile accessibilità alimentando una serie di miti, misteri legati all’esplorazione degli abissi che spesso fanno pensare in maniera errata questa figura professionale paragonata ad un “cacciatore di tesori sommersi”. Alla fine entrambi però, sia lo scavo terreste sia quello subacqueo, risultano interessanti se compiuti formulando le giuste domande.
– Un sogno che da archeologo subacqueo ti piacerebbe realizzare…
A proposito di Puglia infatti mi piacerebbe poter applicare le conoscenze che ho sviluppato in questi anni negli scavi subacquei in Albania per contribuire a far “emergere” la storia dalle acque del territorio regionale. In questo momento sono impegnato in un progetto di prospezione subacquea della Cala San Giorgio lungo le coste sud-est del litorale di Bari.
La storia del mare ci racconta la storia dei popoli che lo hanno frequentato e abitato legata ad una precisa identità culturale basata sulla fitta rete delle comunicazioni, nata con il movimento delle merci ma anche delle religioni e delle idee. Perché i popoli del mare sono come quelli descritti da Omero nell’Odissea, quando a proposito dei Feaci diceva che a loro «(…) non importano arco e faretra, ma alberi e remi di navi e navi librate, con cui varcano il mare canuto, orgogliosi».