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L'archeologia in TV

In che modo si dovrebbe parlare di archeologia in televisione? È giusto parlare solo di passione e basta?
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[Lettera aperta alla redazione di Che tempo che fa]

Gentilissimi redattori e gentilissime redattrici,

 a scrivervi è un gruppo di archeologhe e di archeologi che ha seguito, nella puntata della trasmissione andata in onda il giorno 1 dicembre, l’intervento dell’archeologa Katia Gavagnin.

Ci piace molto l’idea, che per questa nuova edizione del programma avete avuto, di inserire un piccolo spazio dedicato alla divulgazione scientifica, in cui offrire la possibilità ad esperti di varie discipline di raccontare il proprio lavoro al grande pubblico e dunque affrontare in prima serata temi e problematiche altrimenti riservati a programmi di settore non da tutti seguiti, anche perché spesso relegati in fasce orarie per molti proibitive.

Abbiamo dunque molto apprezzato la scelta, da voi fatta, di invitare a raccontare la propria professione un’archeologa e di questo ve ne siamo grati.

Avreste potuto scegliere un docente di archeologia più o meno noto al grande pubblico e magari avanti negli anni (per citarne uno: Andrea Carandini, tra l’altro attuale presidente del FAI), ricorrere, come già fatto altre volte, all’illustre Professor Salvatore Settis, o magari preferire Alberto o Piero Angela, indiscussi pionieri e protagonisti della divulgazione scientifica televisiva.

E invece no: avete scelto un’archeologa ˗ una donna e non un uomo per parlare di archeologia in televisione alle 20 di una domenica sera ˗ giovane, a molti (a noi per primi) sconosciuta, che assieme ad un’équipe dell’Università Ca’ Foscari di Venezia conduce da anni ricerche in Siria, purtroppo ultimamente interrotte a causa della difficile situazione politica di questo Paese.

Certo, ci chiediamo perché la scelta sia ricaduta su un’archeologa orientalista e non su una delle tante archeologhe che lavorano in Italia, nei tanti cantieri d’emergenza, o di ricerca, universitari, o di Soprintendenza, che si possono trovare sul nostro territorio e che nulla hanno da invidiare, per valore dei ritrovamenti, ai siti archeologici del Vicino o Medio Oriente. Poteva essere un’occasione per far conoscere contesti archeologici difficilmente noti al grande pubblico e che spesso, ultimato lo scavo, restano abbandonati non per il rischio incombente o reale di una guerra civile, ma perché non c’è nessun ente pubblico che si occupi della loro valorizzazione, per mancanza di fondi certo (ma questo leitmotiv si traduce in molti casi in un pretesto), ma assai più spesso per l’assenza di una efficace e lungimirante politica di gestione dei beni culturali.

Ma la vostra è stata una scelta e la rispettiamo. Può andar bene qualsiasi archeologo, con qualsiasi tipo di specializzazione, purché gli si offra la possibilità di parlare della propria professione. Ma in che modo è giusto che ciò venga fatto?

Katia Gavagnin ha raccontato cosa hanno ritrovato gli archeologi in Siria, di che cosa si occupa una ceramologa (e qui si potevano spendere due parole sul fatto che un archeologo non studia tutto il materiale che ritrova, non è un tuttologo, ma sceglie su quale classe di reperti focalizzare la sua attenzione e la sua ricerca. Come anche ci si poteva soffermare maggiormente sulle finalità storico-ricostruttive proprie dello studio dei materiali. Probabilmente ciò non è stato fatto per mancanza di tempo…) come lo è lei, a cosa servivano i sigilli e le tavolette con scrittura cuneiforme rinvenute. Tutto questo è stato affrontato con un linguaggio volutamente semplificato, privato di tecnicismi, il più possibile piegato all’esigenza di catturare, in quei dieci minuti di visibilità mediatica, l’attenzione del pubblico della prima serata.

Una scelta mediatica appunto, probabilmente ponderata a tavolino con gli autori stessi della trasmissione, in parte discutibile perché difficilmente un chirurgo o un geologo o un fisico rinuncerebbe a utilizzare termini specifici per far capire di cosa si occupa. Essere chiari, esaurienti ed accattivanti non vuol dire rinunciare alle proprie specificità e peculiarità anche linguistiche che, lungi, dall’impedire la comprensione e quindi la ricezione del messaggio da parte di un grande e diversificato pubblico, potrebbero semmai captarne l’attenzione e sollecitarne la curiosità e la voglia di approfondimento, anche e soprattutto di ciò che non si è colto appieno.

Siamo sicuri che la Gavagnin conduce ottimamente il suo lavoro di “frontiera”, di gran lunga più complesso e sfaccettato di quanto non si possa desumere da pochi minuti di diretta televisiva.

C’è una cosa tuttavia che ci ha deluso, perché, sinceramente, ci saremmo aspettati qualcosa di più; ovvero la risposta che l’archeologa ha fornito alla domanda che si è posta da sola, ovvero “vale la pena scavare con 50° gradi all’ombra in Siria, per trovare alla fine tavolette che attestano che tot litri di grano venivano scambiati con tot quantitativi di cipolla?” (più o meno il concetto era quello…)

La risposta a questo interrogativo, che a nostro avviso presupponeva ben altro tipo di argomentazione, è stata: “Assolutamente sì, e spero che chiunque abbia la passione per l’archeologia possa avere la fortuna che ho avuto io di fare il lavoro che si ama”.

Siamo sicuri che i tanti archeologi che domenica sera hanno seguito la Gavagnin in televisione da Fazio e hanno ascoltato questa risposta, tanto ovvia e sincera quanto inutile ed equivocabile per molti versi, avranno avuto un sussulto di rabbia e il loro orgoglio ne avrà fortemente risentito

Si sceglie di fare l’archeologa, come il pediatra, il cantante o il cuoco, per passione certo, è il grimaldello iniziale che porta ad affrontare un percorso di studi piuttosto che un altro e che, negli anni avvenire, può aiutare a superare le difficoltà che ogni professione e ogni esperienza di vita pongono. Ma il lavoro degli archeologi non è fatto solo di passione, perché se così fosse tutti indistintamente potrebbero avvicendarsi su un cantiere di scavo e sostituirsi agli archeologi di turno. Non si tratta di una inutile ed oziosa attività per nostalgici appassionati del passato e purtroppo, ci spiace dirlo, questo è il messaggio che ancora una volta attraverso l’intervento della Gavagnin è passato.

Quella degli archeologi è una professione vera e propria, che in Italia non è stata ancora riconosciuta (è in atto una mobilitazione di categoria perché ciò avvenga), il che vuol dire che gli archeologi sono dei lavoratori di serie B che non hanno gli stessi diritti e la stessa possibilità di essere tutelati di qualsiasi altra categoria professionale.

E la vita professionale di un archeologo è fatta di tante altre cose che hanno poco a che vedere con la passione: studio, fatica, insoddisfazione, precariato, retribuzioni arretrate, licenziamenti causa maternità, rinunce, discriminazioni se si è donne… per non parlare poi dei tanti, annosi problemi che concernono la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archeologico in Italia e la cui risoluzione non dipende certo dagli archeologi ma che ne pregiudicano e limitano fortemente le possibilità di lavoro e ricerca.

Di tutto questo e di molto altro ancora la Gavagnin non ha parlato, e non era forse previsto che ne parlasse. Ed è un gran peccato perché un’occasione mediatica significativa e di larga risonanza è stata in parte sprecata. L’archeologa ha chiuso il suo breve intervento con la parola “passione”, ma quello poteva essere semmai un inizio da cui partire per parlare d’altro passando attraverso la giusta spiegazione delle finalità e delle metodiche proprie del lavoro degli archeologi.

Il nostro non vuole essere un atto di accusa o di denuncia di parzialità rivolto a voi, né alla nostra collega, a cui va tutta la nostra stima e ammirazione. Vuol essere piuttosto un invito a riflettere sull’opportunità di offrire una visione della professione dell’archeologo più problematica e coerente con l’attualità.

Ci auguriamo che altri professionisti di settore possano avere, in un futuro non troppo lontano, la possibilità di partecipare alla trasmissione e raccontare la fatica, lo studio, l’analisi scientifica, il rigore… senza cui la passione da sola non vale niente.

 

Cordiali saluti,

Giovanna Baldasarre, archeologa, Bitonto (BA)

 

Lettera sottoscritta da:

Paola Mazzei, archeologa, Roma

Elena Quiri, archeologa, Torino

Nora D’antuono, archeologa, Sulmona (AQ)

Marida Pierno, archeologa, Bari

Alessandra De Stefano, archeologa, Foggia

Enza Battiante, archeologa, Foggia

Lorenzo Baldassarro, archeologo, Foggia

Danilo Leone, archeologo, Taranto

Giuliano De Felice, archeologo, Bari

Pasquale Favia, archeologo, Bari

Astrid D’Eredità, archeologa, Roma

Francesca Giannetti, archeologa, Foggia

Milena Costagliola, archeologa, Napoli

Simona Tocco, archeologa, Lentini (SR)

Cristiano Moscaritolo, archeologo, Foggia

Cristina La Bombarda, archeologa, Bari

Andrea Belardinelli, archeologo, Foggia

Anna Introna, archeologa, Bari

Daniela Lentini, archeologa, Castellaneta (TA)

Alessandra Ceglie, archeologa, Bari

Teresantonia Tarsia Maruotti, archeologa, Foggia

Cristiana Barandoni, archeologa, Carrara (MS)

Vincenzo Valenzano, archeologo, Foggia

Debora Di Nauta, archeologa, Foggia

Francesco Monaco, archeologo, Cagnano Varano (FG)

Giacomo Cirsone, archeologo, Cerignola (FG)

Annalisa Di Zanni, archeologa, Corato (BA)

Mariuccia Turchiano, archeologa, Bitetto (BA)

Patricia Caprino, archeologa, Brindisi

Donata Zirone, archeologa, Marsala (TP)

Federica Frisoli, archeologa, Foggia

Andrea D’Ardes, archeologo, Foggia

Angelo Cardone, archeologo, Bari

Giuseppina Sibilano, archeologa, Foggia

Simone Schiavone, archeologo, Bovino (FG)

Margherita Di Niola, archeologa, Napoli

Lidia Di Giandomenico, archeologa, Termoli (IS)

Cosimo Pace, archeologo, Taranto

Arianna Crivelli, archeologa, Crispiano (TA)

Raffaele Fanelli, archeologo, San Severo (FG)

Frida Occelli, archeologa, Torino

Florinda Corrias, archeologa, Sassari

Valeria Volpe, archeologa, Foggia

Giuliana Buongiorno, archeologa, Sant’Arcangelo (PZ)

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